Foto dalla pagina Facebook della Fondazione Golinelli

Bologna, domani

Eugenio Cau

Una passeggiata nella città della conoscenza dell’Opificio Golinelli dove i giovani imparano a innovare

Bologna. Non la si nota subito, arrivando in macchina nella primissima periferia di Bologna, la “città della conoscenza” dell’Opificio Golinelli. Quella che i comunicati ufficiali definiscono una città, in realtà è una cittadella, fortificata con muri bianchi e un cancello altrettanto bianco, quasi invisibile, che scorre automatico e ti porta davanti a un terrapieno piuttosto ripido. Sono pochi metri, ma meglio avere un’automobile diesel per risalirlo. Una volta arrivati, la cittadella tutta bianca si apre davanti al visitatore. La Fondazione Golinelli è nata trent’anni fa come impresa filantropica di Marino Golinelli, imprenditore e fondatore della Alfa Farmaceutici (oggi Alfasigma), che prima che diventasse famoso in Silicon Valley ha portato in Italia il concetto del “giving back”: ho avuto molte opportunità, voglio darne ad altri. Nel 2015 la Fondazione inaugura l’Opificio Golinelli, vale a dire i primi degli edifici bianchi che costituiscono la cittadella. Poi arriva il Centro arti e scienze, un grande spazio espositivo progettato da un’archistar locale, e la cittadella comincia ad acquisire dimensioni notevoli: 9.000 metri quadrati. L’idea dell’Opificio è eminentemente filantropica, e ha due focus principali: da un lato la didattica, dall’altro la contaminazione umanistica.

       

L’Opificio vuole prendere i ragazzi finché sono ancora giovani, e organizza attività innumerevoli con le scolaresche, le classi e le università. Ha due obiettivi, il primo quello di far scaturire nei ragazzi lo spirito imprenditoriale e l’amore per la scienza, il secondo quello di far capire che l’innovazione è un dominio umanistico, che arte e neuroscienze, scultura e matematica possono stare nella stessa frase senza stridere. Nell’Opificio ci sono laboratori di alto livello, che sono molto utili ai professori di chimica dei licei e degli istituti tecnici per portare i ragazzi fuori dai laboratori delle scuole squattrinate, dove tutti gli studenti sono riuniti attorno a un unico becco Bunsen. Ci sono tutor che impartiscono lezioni frontali. Ci sono laboratori di imprenditorialità, in cui ragazzi che ancora non hanno finito il liceo possono cominciare a pensare da startupper. Ci sono anche programmi di alto livello, come un dottorato in Data science e Computation.

        

Il Foglio ha visitato l’Opificio pochi giorni fa, ed è arrivato per caso all’ora di pranzo. La mensa era piena di ragazzi vocianti, sembrava un collegio vecchio stile in cui ci sono studenti di tutte le età, anche se l’ambiente era bianco Apple e molto stiloso: preadolescenti delle medie, ragazzi liceali, universitari con il camice, tutti a mangiare o prendere il caffè nello stesso posto. La richiesta da parte delle scuole e degli istituti è tale che l’Opificio si è trovato senza spazi per accogliere tutti gli studenti, e così ha organizzato dei furgoni attrezzati per portare le loro attività direttamente nelle classi.

      

“Cerchiamo di creare dei luoghi in cui ci sia circolarità e contaminazione tra tutte le fasi dell’innovazione. Qui un ragazzo può fare formazione, può cominciare ad annusare un laboratorio, cominciare a capire che cosa può disvelare questo mondo. E nello stesso spazio ha anche la possibilità di vedere come si comincia a fare impresa, ha la possibilità di capire qual è il grado di trasferibilità di un’idea o di un prodotto, ha la possibilità di capire che le cose che si fanno devono avere una dimensione estetica, perché progresso in campo scientifico e in campo estetico parlano la stessa lingua”, dice al Foglio il professor Andrea Zanotti, presidente della Fondazione Golinelli. “Vogliamo bruciare le tappe tradizionali del processo innovativo, che vedono una di seguito all’altra formazione, idea, innovazione, mercato. Noi vogliamo contaminarle. Vogliamo che i giovani affondino immediatamente la mani nell’innovazione. Per questo abbiamo chiamato questo luogo ‘opificio’, questo è un luogo attivo. Assieme alla formazione teorica dobbiamo trovare il modo di liberare la capacità creativa dei ragazzi, e poi coniugarla con la concretezza di un processo produttivo”.

      

Quando il Foglio ha visitato l’Opificio, gli operai facevano gli ultimi preparativi per l’inaugurazione di G-Factor, un incubatore e acceleratore di imprese innovative che occuperà altri 5.000 metri quadrati della cittadella e che è stato inaugurato ieri. Finora l’Opificio è stato un’operazione totalmente filantropica, ma con G-Factor intende introdurre un elemento di rischio, di mercato e di impresa. In un primo bando da un milione di euro dedicato alle imprese di life science, G-Factor ha selezionato nove startup promettenti da accompagnare in un percorso di incubazione e accelerazione. Tra queste enGenome, uno spinoff dell'Università di Pavia che aiuta i genetisti nella diagnosi delle malattie ereditarie mediante l'intelligenza artificiale; BionIt, una startup di Lecce che ha sviluppato una mano bionica innovativa (ha un solo motore che muove tutte le dita) per chi ha perso un arto; Relief, uno spinoff della Scuola superiore Sant’Anna che usa dispositivi miniaturizzati per trattare le patologie del sistema urinario. L’idea che sta dietro al progetto di G-Factor è quella di assumersi dei rischi, ma con le startup l’opificio non fa filantropia. Antonio Danieli, direttore generale della Fondazione e ceo di G-Factor, ci spiega che G-Factor investirà direttamente nelle startup, diventandone socio di minoranza e assumendosi il rischio del loro successo. “Saremo comprensivi quando c’è da essere comprensivi, severi quando c’è da essere severi”, dice. Tutti i guadagni, se ci saranno, saranno reinvestiti nel progetto. G-Factor si comporta come un’entità di mercato, ma mantiene un atteggiamento da non profit.

      

“Il paese è inchiodato, non ha un’ipotesi di sviluppo”, dice Andrea Zanotti. “Il nostro investimento ha un orizzonte di 10-15 anni, e ha come scopo principale quello di trovarla, questa ipotesi di sviluppo, partendo dai talenti innovativi e dal gran patrimonio manifatturiero che abbiamo. Ma tutto si basa sulla formazione”. 

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.