Mark Zuckerberg (foto LaPresse)

L'equivoco startup

Stefania Nicolich

In Italia sono più uno status symbol che imprese di successo. Idee per cambiare rotta (anche senza una Silicon Valley)

Da qualche anno fondare una startup è diventato un nuovo status symbol da esibire, il nuovo modo per sentirsi partecipi di qualcosa di grande. Ovviamente per farlo serve un abbigliamento semplice, stile ragazzo che non ha mai lasciato il college, e chissenefrega delle contraddizioni che si porta dietro (Mark Zuckerberg indossa magliette cheap mentre vende la tua privacy ad altre società). L’impressione è che le startup siano diventate un prodotto da piazzare, principalmente strumenti di marketing e propaganda. Si promuovono eventi in continuazione per promuovere l’ecosistema delle startup in Italia, quando invece è proprio il sistema su cui si appoggiano che non funziona.

 

I risultati sono deludenti: eventi tutti uguali nell’approccio al tema, che si differenziano tra loro per il tipo di pubblico a cui si rivolgono e per la farcitura delle tartine al rinfresco. Non si fa che ripetere che bisogna rivolgersi ai giovani, e poiché Mark Zuckerberg, Larry Page e Steve Jobs erano tutti studenti che hanno mollato l’università per cambiare il mondo, il riferimento è per forza lo studente universitario. “Andiamo nelle università a creare incubatori e programmi di formazione”, “I giovani sono il futuro”, e altri luoghi comuni da festival della banalità. Bisognerebbe innanzitutto ricordare che questi imprenditori sono eccezioni, e che hanno avuto diverse opportunità per riuscire a fare quello che hanno fatto. Ad esempio, la possibilità di parlare e confrontarsi con persone che avevano già fatto percorsi simili e sono i maggiori esponenti di quel settore. E’ proprio questa la peculiarità della Silicon Valley, una concentrazione di talenti e persone che hanno creato qualcosa e hanno un’esperienza invidiabile che si possono incontrare semplicemente bevendo un caffè al bar.

 

Alcuni incubatori universitari non hanno neanche il Wi-Fi. Ma tanto quello che conta è che si parli di innovazione, no?

Purtroppo, in Italia, questa possibilità di confronto non esiste. O perché non lo si riesce a creare, o perché quando si cerca di crearlo con vari tentativi e ottime intenzioni, il risultato non è proprio quello che ci si aspettava. Sembrerà assurdo, ma alcuni incubatori universitari non hanno neanche il Wi-Fi. Ma tanto quello che conta è che si parli di innovazione, no? Quello che circola molto, di sicuro, sono i consigli per fondare una startup: chi li dispensa sembra che abbia imparato a memoria una sorta di vocabolario dello startupparo, senza avere però alle spalle l’esperienza o anche soltanto la curiosità di lanciarsi a sviscerare davvero i problemi che, soprattutto in Italia, incontrano le aziende che provano a fare innovazione. Ma, anche qui, l’importante è ispirare gli aspiranti imprenditori con citazioni azzeccate che diano la forza per proseguire.

“La differenza tra un sogno e un obiettivo è una data” (Walt Disney)

“Se l’opportunità non bussa, costruisci una porta” (Milton Berle)

Vi sentiti già più motivati? No? Già, perché per cercare la giusta motivazione, forse, il segreto è piuttosto parlare e confrontarsi con le persone. Non basta, però. Si può passare una giornata intera a chiedere, a un evento, “con quali criteri si valuta una startup?”, e ritrovarsi con risposte generiche e tutte uguali: il team, ovviamente, l’eterogeneità. Il team eterogeneo non è sinonimo di successo garantito, lo dice l’esperienza.

 

Le startup italiane sono piccole, partono con piccoli investimenti e rimangono di piccole dimensioni nonostante i sogni di grandezza

Il problema non è solo il sistema che si è creato: tante idee, tanti sogni, tanti progetti, ma poche startup. Così come gli investimenti, insufficienti per le troppo piccole realtà che non hanno la liquidità necessaria. In Italia le startup ricevono pochi investimenti a fronte di un’alta richiesta di partecipazioni in società. Ecco uno dei motivi per cui si ritrovano poi costrette a considerare altri paesi e a dover rinegoziare i termini d’investimento più avanti, creando non pochi problemi nel percorso.

 

Da un sondaggio tra le startup condotto dal ministero dello Sviluppo economico nel febbraio del 2018, la maggioranza delle startup ha dichiarato che la principale motivazione per l’avvio dell’impresa è la realizzazione di prodotti e servizi innovativi e l’ambizione di avviarne una di successo e redditizia. Eppure le startup italiane sono piccole, partono con piccoli investimenti e rimangono di piccole dimensioni. Sono solo i sogni di ricchezza che sono un po’ troppo grandi? Se si fonda una startup per diventare ricchi è già un fallimento di partenza. Infatti, la metà dei soci dichiara che l’avvio della startup non ha prodotto effetti significativi sul proprio reddito. I finanziamenti, anzi, almeno inizialmente vengono fatti con le risorse dei soci fondatori. Hanno un ruolo marginale le donazioni da parte di famigliari e amici, i quali si propongono più come soci che come meri finanziatori. Si dice di preferire un giusto equilibrio tra investimento tramite partecipazioni e debito, però nessuno cerca finanziamenti tramite partecipazioni societarie dopo la formazione della startup. Non solo, molti dichiarano di non aver fiducia nei venture capital e di aver rifiutato offerte di investimento perché le quote erano state valutate troppo basse, per clausole che penalizzavano i soci già presenti, per la quota chiesta e per il ruolo gestionale richiesto.

 

Quindi, la forma di investimento che viene usata maggiormente dalle startup italiane è il debito bancario. La forma d’investimento scelta proprio dalla maggior parte delle piccole e medie imprese italiane. Non c’è differenza, le startup che nascono sono piccole e medie imprese forse con un’aggiunta di innovazione, ma non troppa, perché non riescono ancora a cambiare le carte in tavola. D’altronde però sono proprio le piccole e medie imprese che compongono gran parte dell’ecosistema economico dell’Italia.

 

Le startup italiane non fanno neanche tanto riferimento agli incubatori e agli acceleratori. “In Italia c’è una diffusa ignoranza, non si è capita ancora bene la differenza tra incubatori e acceleratori. Sono considerati quasi sinonimi”, spiega al Foglio Augusto Coppola, uno dei fondatori di InnovActionLab, che ora dirige LVenture Group, società quotata che opera nel campo del Venture Capital con il brand LUISS EnLabs.

 

Le vecchie generazioni non capiscono questo mondo e le nuove ci giocano. Una startup è un’impresa che deve creare valore

Le startup digitali devono rapidamente generare quei risultati che permettono di capire se la loro idea ha un valore per il mercato, e il modo migliore per farlo è quello di iniziare a fatturare nel più breve tempo possibile. Coppola porta avanti un programma di accelerazione molto esigente e strutturato della durata di cinque mesi, al termine dei quali le startup generano i primi fatturati. I risultati confermano questa impostazione: più dell’80 per cento delle startup al termine del programma ricevono investimenti da parte di privati non collegati con il fondo. L’ammontare degli investimenti, per ciascuna startup, oscilla tra i 250 e i 650 mila euro, con valutazioni che oscillano tra 1.2 e 2 milioni di euro. Forse il segreto della riuscita del programma è proprio il forte orientamento ai risultati indotto alle startup, che sono costrette a lasciare il programma laddove non siano in grado di raggiungere obiettivi concreti entro scadenze concordate.

 

Il primo programma di incubazione italiano è stato I3P del Politecnico di Torino, che sostiene dal 1999 startup fondate dai ricercatori universitari con porte aperte anche agli esterni e continua a farlo tutt’oggi con risultati positivi. Finora grazie a I3P sono nate 233 startup (in media tre quarti di loro è sopravvissuta, una su dieci ha effettuato un exit) che nel 2017 hanno generato in media quasi un milione di euro a testa. I3P non offre solo spazi attrezzati, ma anche consulenza strategica e specialistica, opportunità di contatto con investitori e clienti corporate. Una rete industriale, quella di Torino, che “circonda” e sostiene l’ecosistema dell’incubatore. Però, in un mondo che si muove velocemente come quello delle startup, è importante che anche le strutture attorno a loro si muovano con lo stesso passo. Forse incubatori e acceleratori devono cambiare il loro approccio e vedere se i loro metodi aiutano effettivamente le startup. Si condividono esperienze e si analizzano i metodi usati dagli imprenditori di successo, ma per calare un’idea in un progetto forse manca proprio quella praticità che hanno ad esempio gli americani. Meno storia, più realtà. E’ bello ed educativo ascoltare le esperienze delle altre persone, ma è ancor più utile dare un team di esperti in ogni settore a supporto per sviluppare velocemente un progetto, dato che le risorse umane sono il fattore critico per le startup. Tra le diverse forme d’investimento che si stanno manifestando in Italia c’è anche quella della Corporate Venture Capital, piccole e medie imprese che si comportano come Venture Capital che con fondi investono in startup.

 

Tra i dati pubblicati in anteprima da Italia Startup sul terzo Osservatorio sui modelli italiani di Open Innovation, è da notare come l’incidenza sul giro d’affari complessivo delle startup, che si attesta a 1,2 miliardi di euro, sia del 41 per cento per un totale di 494 milioni di euro. Il 24,3 per cento delle startup iscritte al registro delle Imprese Innovative rientra nel portfolio di investitori in Corporate Venture Capital (2.329 startup su un totale di 9.285). E le imprese che investono vedono aumentare il loro tasso di crescita, soprattutto quelle di piccole dimensioni (+22 per cento), seguite dalle medie (+20) e dalle grandi (+17).

 

Un’altra fonte d’investimento che sta portando risultati sorprendenti, è quello dell’equity crowdfunding, che nel 2018 ha fatto registrare numeri record. Nell’anno appena concluso sono stati raccolti 36 milioni di euro, con una forte accelerata nel terzo e quarto trimestre, con quasi 22 milioni di euro incassati. Le campagne concluse durante quest’anno sono state 114, contro le 50 del 2017, con 9.500 investitori complessivi e 84 investitori in media per campagna. La principale piattaforma italiana del settore si conferma Mamacrowd.com, che dalla sua nascita ha raccolto quasi 15 milioni di euro e chiuso il più alto numero di campagne (47). La campagna con la raccolta di maggiori capitali è stata Fidelity House, che ha ottenuto 652 mila euro. E’ il primo Social Content Network in Italia che permette agli utenti di essere sempre aggiornati sui propri interessi e pubblicare contenuti guadagnando in base al volume delle visualizzazioni ottenute. Al secondo posto segue My Cooking Box, che seleziona e confeziona i migliori ingredienti italiani accompagnandoli con le ricette più adatte, e ha raccolto 533 mila euro. Seguono i 336 mila euro incassati da E-motion, piattaforma di servizi integrati per la gestione delle spedizioni e del post-vendita delle aziende che vendono online.

 

Intervistando un campione di investitori di Mamacrowd, è risultato che la loro principale motivazione per investire nelle startup è la distribuzione di dividendi e capital gain. In secondo luogo c’è la volontà di aiutare la società a crescere, poi vengono le detrazioni fiscali.

Gli investitori selezionano le startup maggiormente per il fattore tecnologico percepito, poi per possesso di brevetti e know-how protetto. I settori di maggior interesse sono le nanotecnologie, la green economy, il turismo, i Bitcoin, i software, la sharing economy, l’e-commerce e il food.

 

“Non c’è una cultura di come fare impresa con metodi innovativi – racconta al Foglio Marco Deiosso, ceo della startup Nausdream, agenzia di viaggio online specializzata nell’esperienza in barca – Le vecchie generazioni non capiscono questo mondo e le nuove reclute ci giocano. Una startup è un’impresa che guarda all’innovazione e alla crescita, ma è un’impresa e come tale deve creare valore. Le startup italiane non possono essere solo idee carine, quelli possono essere i progetti universitari, ma devono produrre valore per il mercato e per il mondo del lavoro”. L’ecosistema delle startup italiane non è competitivo neppure a livello europeo. Anche tra le nostre eccellenze non si riesce a venirne fuori. Il sistema di Silicon Valley non ha attecchito in Europa, mentre in paesi come Israele, Hong Kong e la Cina si è realizzato in modo diverso. Le aziende europee sono comunque relativamente piccole e non riescono quasi mai ad avere lo slancio visionario di chi almeno prova a cambiare il mondo. “Una delle possibili soluzioni per il sistema Italia, è proprio il Corporate Venture Capital – prosegue Deiosso – dove le piccole e medie imprese possono facilmente accedere all’innovazione e crescere più rapidamente”.

Una possibile soluzione? Il Corporate Venture Capital, dove le imprese possono facilmente accedere all’innovazione

Nessuna creatura mitologica, niente unicorni, ma andare verso la direzione di sviluppare la propria catena di valore. Il fare startup in Italia non può essere un rincorrere sogni di grandezza, ma fare “semplicemente” impresa usando la tecnologia oggi a disposizione combinandola in maniera diversa. Tant’è che, per definizione, una startup non è nient’altro che un’impresa che sta cercando un proprio modello di business che possa essere scalabile. Qualsiasi impresa che inizia la propria strada si ritrova in questa situazione.

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