Il vicepremier e leader del M5s Luigi Di Maio (Foto Imagoeconomica)

Le fantasie di Di Maio sul venture capital

Valerio Valentini

Perché non ci sarà la pioggia di denaro promessa dal ministro dello Sviluppo su aziende innovative e startup

Roma. Sarà stato per uno di quegli artifici retorici a cui ormai ci ha abituato, ma Luigi Di Maio lo ha detto davvero: “Abbiamo creato un fondo di venture capital da un miliardo per le startup innovative”. Verrebbe voglia di liquidare, pure questo, come uno dei tanti scombiccherati annunci, un po’ veri e un po’ no. Anche perché, altri esponenti del M5s, nelle scorse settimane hanno addirittura azzardato molto di più: tre miliardi. Ma di cosa parliamo, davvero? In legge di Bilancio sono stati stanziati 100 milioni in tre anni, per questa piattaforma: e si tratta degli unici soldi davvero certi, che il Mise affiderà alla Cassa depositi e prestiti immaginata come la regista dell’operazione.

 

Dopodiché, il governo ha stabilito che il 15 per cento degli utili delle partecipate di stato venga devoluto alla piattaforma di venture capital. Una cifra che, secondo le stime di Via Veneto, si aggira intorno ai 400 milioni all’anno. Non poco, se non fosse che sussistono, in questo caso, due problemi. Il primo riguarda la variabilità dello stanziamento, soggetto evidentemente agli andamenti più o meno positivi delle aziende controllate dal Tesoro. Ma oltre a questa incognita, c’è un problema che ha a che fare, semplicemente, col diritto: chi garantisce che gli azionisti di minoranza delle partecipate – non di rado fondo stranieri – acconsentano a questa operazione?

 

Nel governo fanno spallucce: “Ci sarà una spinta politica per convincere tutti i partecipanti”, dicono i grillini. Ma in ogni caso si tratta, a ben vedere, di una sorta di allocazione forzosa. Così come appare esserlo anche la decisione di destinare il 3,5 per cento dei Pir, i Piani individuali di risparmio, alla piattaforma per il venture capital. Sono grosso modo 500 milioni, su cui però gravita un altro paradosso: i Pir, infatti, sono liquidabili dopo cinque anni dalla loro sottoscrizione, mentre il tempo medio per ottenere dei rendimenti da un investimento in venture capital o private equity, è più lungo perché parliamo di un investimento utile a lanciare una nuova azienda in settori di frontiera, quindi servono almeno sette o otto anni.

 

Nel M5s rivendicano il fatto che gli sgravi fiscali previsti in manovra scatteranno dopo il quinto anno, per cui molti investitori saranno invogliati a non ritirare i loro risparmi. E tuttavia, anche in questo caso, c’è un problema di certezza delle risorse che si riescono a raccogliere. Il governo punta poi a coinvolgere gli investitori istituzionali, fondazioni bancarie in primis, che entro febbraio verranno convocate in un tavolo analogo a quello che il premier Conte apparecchiò con le partecipate. Obiettivo? Farli partecipare al fondo, senza però concedergli, anche qui, alcun potere di governance. Infine, verranno dirottati su Cdp i fondi finora gestiti da Invitalia per finanziare analoghi progetti di venture capital: un semplice travaso a saldi invariati.

Di più su questi argomenti: