La manovra cambia i Pir e mette a rischio il risparmio delle famiglie
Un emendamento della Lega destina quote dei piani individuali di risparmio verso piccole aziende e start up tecnologiche. L'allarme di gestori e consulenti finanziari indipendenti
Milano. Un emendamento alla legge di Stabilità, proposto dal deputato della Lega Giulio Centemero, e approvato dalla Commissione Bilancio della Camera, punta a introdurre l'obbligo di destinare il 3 per cento dei capitali raccolti dai Pir – Piani individuali di risparmio – al segmento Aim di Piazza Affari, su cui si quotano le piccole società con un elevato potenziale di crescita. La notizia è stata, ovviamente, accolta con grande favore dalla comunità finanziaria che ruota intorno all'Aim su cui si stima arriveranno prossimamente investimenti per 4-500 milioni di euro. E a brindare sono anche tante start up tecnologiche che stanno scaldando i motori per andare in Borsa nel 2019 con la prospettiva di trovare più facilmente investitori pronti a credere nel proprio progetto. Nessuno, in pratica, ha mosso obiezioni a quest'iniziativa considerato anche che i Pir godono di ampio consenso per il fatto di rappresentare l'unica grande novità del mercato finanziario italiano degli ultimi anni. Da quando sono stati introdotti – a marzo 2017 per iniziativa del Mef – i Piani individuali di risparmio hanno raccolto complessivamente 19 miliardi e la liquidità investita nelle società quotate con sede in Italia ha favorito il rally di Piazza Affari fino a quando questa non ha cominciato a sgonfiarsi a causa dell'incertezza politica.
Peccato, però, che quando si parla di Piani individuali di risparmio non si consideri quasi mai il punto di vista di chi ha acquistato questo prodotto finanziario, cioè le famiglie italiane, nella convinzione di fare un investimento molto conveniente visto che lo Stato riconosce un bonus fiscale rispetto ai prelievi sui proventi applicati agli altri prodotti. Già qualche settimana fa un'analisi di Moneyfarm aveva evidenziato come i 65 fondi che investono in Pir registrino perdite consistenti alla fine di un anno molto tribolato per la Borsa italiana, dal -6 per cento al -25 per cento a seconda della tipologia (i più penalizzati sono gli azionari), e aveva criticato l'esclusiva focalizzazione di questi strumenti sul mercato domestico a scapito di un principio di diversificazione geografica. Ora, però, se il governo spinge per destinare una parte del risparmio degli italiani verso un listino non regolamentato come l'Aim oppure per sostenere il venture capital, nella pratica introduce una modifica sostanziale del profilo di rischio di questo prodotto, soprattutto se, come pare, la regola si applicherà non solo alla nuova raccolta ma anche a quella vecchia.
Gilles Guibot, gestore di un fondo Pir di Axa Investment Managers, si dice sorpreso negativamente da questa proposta e ritiene che, se dovesse passare, la Consob dovrebbe intervenire a tutela dei risparmiatori. Come mai tanto scetticismo? “Le nostre scelte di investimento sulle società sono solitamente guidate da valutazioni sul modello di business, sulla governance e su un progetto di crescita convincente. Orientare con una legge le decisioni, seppure in percentuale minima, equivale a violare questa libertà di scelta, e si introduce un pericoloso elemento di rischiosità per chi investe in Pir per il semplice fatto che le aziende quotate sull'Aim non sono sottoposte allo stesso sistema di regole di quelle presenti sul listino principale o sullo Star”. Secondo Guibot l'arrivo di 4-500 milioni di euro su un mercato che capitalizza 7 miliardi con appena 1,7 miliardi di flottante, finirà con il gonfiarne i corsi azionari creando così una bolla speculativa. “Se proprio si volesse sostenere l'Aim, occorrerebbe allora allineare la disclosure ai listini come Mta o Star”. Naturalmente, anche il gestore francese sa che tante storie di imprese presenti sull'Aim (114) sono solide e meriterebbero l’attenzione degli investitori, ma a maggior ragione esiste l'elevata probabilità che questi titoli vengano presi d'assalto, perché considerati più affidabili di altri, gonfiandone a dismisura il valore.
“Il punto è che il rischio di impresa di aziende piccole o start up, seppure con potenzialità di sviluppo, non è adatto ad essere sopportato da famiglie che hanno l'esigenza di collocare i propri risparmi in asset class più tranquille e con caratteristiche di maggior liquidabilità al bisogno – spiega Stelvio Bo, consulente finanziario indipendente, categoria che ha appena ottenuto un riconoscimento ufficiale nell’ambito dell’albo dei consulenti finanziari. Insomma, gli italiani non sono un popolo di venture capitalist e in quanto a cultura finanziaria hanno delle carenze, come emerge da tutte le ricerche. “Se guardiamo in retrospettiva, possiamo dire che lo scopo di aumentare i fondi a sostegno delle piccole e medie imprese italiane è stato raggiunto perché l'attuale legge sui Pir prevede già che una quota pari al 21 per cento delle risorse venga destinata a questo universo, anche se non in particolare al segmento Aim, e qui ci dovremmo fermare – prosegue Bo – Bisogna spiegare che i vantaggi fiscali si concretizzano in maggiori guadagni solo se il valore degli investimenti aumenta nel tempo. Ma ciò non sta avvenendo, e perciò chi ha investito nei Pir si trova oggi con minusvalenze potenziali”.
Secondo l’esperto, inoltre, l’industria della distribuzione di prodotti finanziari ha colto l’occasione per applicare in alcuni casi commissioni molto salate ai Pir, cosa che sarà presto evidenziata grazie a nuove norme sulla trasparenza dei contratti d’investimento che entreranno in vigore da marzo 2019. In effetti, sui risultati ad oggi di questo strumento si registra al momento un certo imbarazzo poiché è chiaro che i fondi dovranno almeno recuperare le perdite di quest'anno se alla scadenza – il ciclo di vita è di cinque anni – vorranno offrire un rendimento. Secondo Roberto Rossignoli di Moneyfarm, il rischio legato ai Pir non riguarda tanto lo strumento in sé, ma un potenziale equivoco connesso alla loro commercializzazione. “Il Pir incoraggia il bias domestico, con conseguente concentrazione degli investimenti sull’Italia. Meglio sarebbe stato non legare l’incentivo fiscale a particolari limitazioni di tipo geografico, come d’altronde vediamo accadere in altre nazioni, per esempio il Regno Unito. Agli investitori consigliamo, quindi, di adottare sempre una logica di diversificazione globale”.
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