Mark Zuckerberg (foto LaPresse)

Le fake news di Facebook

Eugenio Cau

Un’inchiesta del New York Times svela come Zuckerberg e Sandberg hanno fatto circolare più misinformazione (a proprio vantaggio) mentre dicevano di volerla combattere

All’inizio del 2016, quando ancora tutti davano per scontato che Hillary Clinton sarebbe diventata presidente degli Stati Uniti, circolò insistente la voce che Sheryl Sandberg, chief operating officer (coo) di Facebook e braccio destro del ceo Mark Zuckerberg, sarebbe stata nominata segretario al Tesoro. Molti lo videro come un ritorno naturale per Sandberg, che aveva lavorato nell’Amministrazione di Bill Clinton, dopo i lunghi anni trascorsi a fare di Facebook un’azienda multimiliardaria capace di connettere un terzo delle persone sul globo. Nel 2017, dopo la vittoria di Donald Trump, Zuckerberg si lanciò in un tour per tutta l’America, a bere birra nei pub e mungere vitelli nei ranch. Allora, molti immaginarono che stesse preparando la strada per un suo ingresso in politica, magari alla presidenza degli Stati Uniti: Zuck 2020. Ieri il New York Times ha pubblicato un’inchiesta estremamente approfondita sulla leadership e le strategie delle due personalità che più di ogni altra hanno forgiato Facebook, e i dettagli sono a tal punto dannosi che da soli potrebbero uccidere per sempre le ambizioni politiche di Sheryl e Mark, se mai ci fossero state davvero.

 

Il New York Times racconta dall'interno dell'azienda il periodo che va dal 2016 a oggi, il peggiore della storia di Facebook, quello che ha visto accumularsi gli scandali sulle interferenze russe alle elezioni americane, sulla misinformazione rampante, su Cambridge Analytica (senza contare i disastri combinati da Facebook in posti come il Myanmar e l'India, non citati dal giornale americano). È il periodo in cui Facebook ha visto rompersi il consenso politico favorevole intorno all'azienda e intorno all'industria tech, levarsi voci che condannavano il suo monopolio digitale, venire meno la fiducia degli utenti.

 

Il primo punto dell'inchiesta riguarda il periodo intorno alle elezioni americane del 2016, ed è in parte noto: prima ancora del voto, e anche quando, in seguito, Mark Zuckerberg negò drasticamente che il social network fosse stato vittima e facilitatore inconsapevole di un'operazione dell'intelligence russa per influenzare il risultato elettorale, i tecnici di Facebook sapevano dell'interferenza del Cremlino. Lo sapeva quanto meno la Sandberg, che accusò Alex Stamos, allora capo della sicurezza del social network, di aver indagato troppo sulle attività russe, e di avere così reso l'azienda giuridicamente vulnerabile.

 

Da quel momento comincia per Facebook un balletto di ammissioni controvoglia, di comunicati castrati che minimizzano tutti i problemi, e di nuove ammissioni a mezza bocca tutte le volte che i giornalisti scoprono nuove responsabilità e si accorgono che il problema è sempre più esteso.

 

Lo stesso avviene con il caso Cambridge Analytica. Facebook tenta di negare, minimizzare, attirare le colpe sui concorrenti. E quando la dirigenza si accorge che gli scandali stanno danneggiando la reputazione di Facebook, e che le aziende rivali approfittano della crisi per danneggiare il social network, comincia una campagna di influenza che ha numerosi aspetti equivoci, altri risibili. I risibili: quando Tim Cook di Apple comincia a fare campagna sulla privacy e sulla protezione dei dati, Zuckerberg, infuriato, impone a tutti i suoi dirigenti di non utilizzare più i prodotti di Apple. Gli aspetti equivoci: Sandberg comincia una campagna di lobby intensa al Congresso americano, che coinvolge i suoi contatti politici a tutti i livelli, in alcuni casi in modi imbarazzanti: il capo dei democratici al Senato, Chuck Schumer, è da sempre un alleato dell'azienda, e secondo il New York Times ha prevenuto le iniziative anti Facebook dei suoi colleghi in modo così deciso da aver stupito perfino i rappresentanti dell'azienda. Sua figlia Alison lavora come manager nel settore marketing di Facebook.

 

Soprattutto, Sandberg si affida ad alcuni operatori politici, sia democratici sia repubblicani, per mettere in atto strategie di contrasto politico in alcuni casi decisamente scorrete. Facebook comincia a servirsi di un'azienda di consulenze chiamata Definers Public Affairs, che fa pubblicare su siti di news di destra articoli che condannano le presunte pratiche di business scorrette di Apple e di Google, il concorrente più diretto di Facebook. Alcuni di questi articoli sono ripresi da siti populisti e trumpiani come Breitbart. Definers fa circolare anche un report che sostiene che Facebook sia vittima di un movimento globale contro l'azienda sponsorizzato niente meno che da George Soros, il filantropo liberal ebreo. Sui siti di estrema destra, il nome di Soros è un segnale pavloviano di antisemitismo, ma non è questo l'intento di Facebook: semplicemente, Zuckerberg vuole "intorbidire le acque", come dice un membro di Definers al New York Times. Anzi, quando un gruppo di sinistra organizza una protesta durante un evento, Zuckerberg e Sandberg, che sono entrambi ebrei, denunciano i manifestanti alla Anti Defamation League per antisemitismo. Ieri Facebook ha annunciato in un comunicato di aver interrotto ogni relazione con Definers, e ha smentito parte dell'articolo del New York Times dicendo che conterrebbe "numerose inesattezze".

 

Nonostante questo, la malafede è spettacolare: mentre Facebook prometteva al mondo che avrebbe risolto alla radice il problema della misinformazione, dava incarico a Definers di spargere le medesime fake news, spesso in un formato (il complotto sorosiano!) che suscita gli istinti peggiori dell'estrema destra. Facebook prometteva trasparenza, ma dietro alle quinte lavorava per intorbidire le acque. C'è abbastanza materiale per perdere fiducia per sempre nelle promesse di autoriforma di Facebook, e per mettere in dubbio la capacità di leadership dei due massimi dirigenti dell'azienda.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.