Riluttanza antisocial
Perché i giovani neolaureati più brillanti d’America non vogliono più andare a lavorare per Facebook
Milano. Fino a un paio d’anni fa, Facebook era considerato il posto di lavoro migliore del mondo. Non soltanto perché il campus di Mountain View è una specie di paese dei balocchi, come tutti i campus siliconvallici, non soltanto per i benefit infiniti, comprese le mense gestite da grandi chef, non soltanto per le paghe altissime, che ammontano in media a 240 mila dollari all’anno (è lo stipendio medio, sì). Facebook aveva una missione solare, un ethos aziendale forte, un futuro di crescita. Sul sito Glassdoor, che è un servizio in cui i dipendenti delle compagnie americane lasciano recensioni anonime dei loro datori di lavoro, e dunque è abbastanza affidabile (è lo stesso che stila la classifica dei migliori posti di lavoro), Facebook era pieno di recensioni di dipendenti adoranti. Quello che è successo negli ultimi due anni lo sappiamo. Sono cominciati gli scandali, c’è stato Cambridge Analytica, e i dipendenti che erano convinti che il loro lavoro avesse lo scopo nobile di connettere il mondo hanno scoperto che in realtà stavano minando le basi della democrazia, e che Facebook era stato un fattore decisivo in eventi atroci come il genocidio in Myanmar. Così nella classifica di Glassdoor Facebook ha cominciato a perdere posizioni. Perfino i giovani neolaureati di Harvard e Stanford, che prima facevano la fila per entrare nella corte di Mark Zuckerberg, adesso rifiutano le sue offerte di lavoro.
Lo scrive Cnbc, che ha sentito una decina di recruiter da poco usciti dall’azienda. Nelle compagnie come Facebook tutto è mosso dai dati, e dunque le cifre sono molto precise. Se fino a un paio di anni fa, quando Facebook faceva una proposta di lavoro a un ragazzo o a una ragazza usciti da una università di alta fascia americana, questa veniva accettata l’85 per cento delle volte, adesso quando Facebook fa la stessa proposta soltanto tra il 50 e il 35 per cento dei migliori neolaureati dice di sì. Nei team di software engineer, che è il lavoro più importante e ambito, nel 2016 il tasso di accettazione di proposte di lavoro era del 90 per cento, oggi si è ridotto al 50 per cento (Facebook ha contestato questi dati). I candidati inoltre sono molto più assertivi: sono loro a fare pressione sui recruiter con domande dure su come Facebook intende rispettare la privacy degli utenti e ristabilire la sua reputazione. Questo non è soltanto un problema simbolico, o di morale, ma un gigantesco problema di business per il social network. Secondo Cnbc, Facebook sta perdendo la possibilità di attrarre talenti, che preferiscono andare a lavorare da Google o da Microsoft, che offrono stipendi e benefit comparabili. Altri preferiscono andare a lavorare in imprese in grande ascesa come Airbnb o Slack. In un mercato in cui i talenti valgono più di ogni altra cosa, Facebook non può permettersi queste emorragie.
La scarsa propensione dei neolaureati ad andare a lavorare per Facebook è sintomo di un declino più grande della reputazione del social network presso l’opinione pubblica. La scorsa settimana il cofondatore dell’azienda, Chris Hughes, ha chiesto allo stato americano di trattare Facebook come un monopolio e di spezzarlo in più parti. Una proposta simile è stata avanzata da Elizabeth Warren, candidata alle primarie del Partito democratico americano per la presidenza, ed è stata già sostenuta da altri candidati, come Bernie Sanders. I candidati che non approvano le misure di Warren, come Joe Biden, sostengono in ogni caso che Facebook debba essere sanzionato con durezza. Secondo un sondaggio di SurveyMonkey, il 40 per cento dei cittadini americani ritiene che Facebook debba subire un’azione dell’Antitrust. Ovviamente, in questi propositi bellicosi non è possibile non notare un’incongruenza: i politici democratici che vogliono colpire Facebook continuano a investire milioni di dollari in annunci sul social network, e i cittadini americani continuano a iscriversi.
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