Gli impiegati di Google protestano per i piani di entrare in Cina. Google non se ne cura

Eugenio Cau

La normalizzazione della Silicon Valley, senza più idealismo

Roma. Il ceo di Google, Sundar Pichai, ha difeso davanti ai suoi dipendenti la decisione – sarebbe meglio dire: il tentativo – di riportare il motore di ricerca nel mercato cinese. Google era uscito dalla Cina nel 2010, dopo essere stato l’oggetto di alcuni attacchi informatici e per difendere la libertà d’espressione di cui era portatore dalle mire censorie del Partito comunista cinese. La decisione fu molto applaudita, anche se costò a Google la permanenza nel mercato digitale più grande del mondo, e contribuì a creare un’immagine dell’azienda perfettamente commisurata al suo vecchio motto: “Don’t be evil”. Da allora le cose sono cambiate, e all’inizio del mese alcuni media americani hanno rivelato che Google ha un piano in stato piuttosto avanzato (chiamato Dragonfly) per tentare di reintrodurre il suo business in Cina, sottomettendosi – questa volta senza troppi dilemmi etici – alla censura e al controllo politico: i miliardi in gioco sono diventati troppi.

 

Come succede ormai puntualmente in queste occasioni, è arrivata la protesta dei dipendenti dell’azienda. Circa 1.400 dipendenti hanno firmato una lettera (immediatamente arrivata al New York Times) in cui dicono che il tentativo di tornare in Cina “solleva urgenti questioni etiche e morali”, e ricordano come il cofondatore Sergey Brin disse otto anni fa che il sistema di governo cinese mostrasse “elementi di totalitarismo”. I dipendenti hanno poi protestato contro i metodi dell’azienda: come è possibile che veniamo a conoscenza di progetti così importanti dai media? “Dobbiamo sapere quello che costruiamo”.

 

La contesa tra dipendenti e dirigenti delle grandi aziende tecnologiche della Silicon Valley è diventata una costante in tempi recenti. Gli ingegneri di Google, ancora, hanno firmato a migliaia un appello questa primavera per porre fine a un piano di collaborazione tra l’azienda e il Pentagono che minava la vocazione pacifista dell’azienda. Quelli di Microsoft hanno protestato contro il ceo Satya Nadella per il sostegno tecnico fornito all’Ice (Immigration and Customs Enforcement), l’agenzia per l’immigrazione americana che separava i migranti imprigionati dai loro figli. Ad Amazon si è lottato contro la vendita di tecnologie per il riconoscimento facciale alle forze di polizia. Facebook è in tumulto permanente, visto il continuo intersecarsi delle vicende del social con quelle della politica. Twitter ha subìto la rivolta interna proprio in questi giorni, con i dipendenti amareggiati per la decisione del ceo Jack Dorsey di consentire al complottista Alex Jones di continuare a usare il social network come piattaforma per i suoi incitamenti all’odio.

 

Quasi sempre gli ingegneri idealisti l’hanno vinta sui manager calcolatori: anche durante l’ultima protesta, Google cedette alle richieste e cancellò il contratto con il Pentagono. Non questa volta. Il ceo Pichai – dicono le ricostruzioni dei media – ha rivendicato il progetto di tornare in Cina, e ha risposto alle contestazioni che accusavano Google di aver perso la sua tempra morale con la convinzione che la presenza del motore di ricerca in un mercato sia un fattore benefico per se: “Credo davvero che noi [di Google, ndr] abbiamo un impatto positivo quando interveniamo nel mondo, e non vedo nessuna ragione per cui questo dovrebbe cambiare in Cina”. Pichai ha comunque aggiunto che Google è lungi (“not close”) dal lanciare un motore di ricerca in Cina, ma molti esperti hanno interpretato questa frase come: noi saremmo pronti, ma è difficile che il Partito comunista ci dia il permesso in tempi brevi.

 

È la prima volta che tra la dirigenza di un’azienda tech americana e i suoi impiegati si crea un divario così netto su un tema etico fondamentale – ed è la prima volta che la dirigenza decide di tenere il punto. Possiamo definirla prova di maturità, o sintomo di normalizzazione: ai piani alti della Silicon Valley ormai si è persa completamente l’illusione che Google, Facebook e Twitter siano agenti per il miglioramento del pianeta – credenza che invece molti impiegati ancora sostengono. È stato un fenomeno graduale, ma ormai è compiuto: per Pichai, Zuckerberg e gli altri gli affari sono affari, e l’idealismo è un ostacolo.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.