Il logo di Facebook riflesso nell'occhio di una persona (foto LaPresse)

Facebook e Google crescono perché più di Cambridge vale la dipendenza

Eugenio Cau

Altro che #deletefacebook. I conti trimestrali delle società tecnologiche americane continuano a migliorare. Nonostante gli scandali 

Roma. Quella appena trascorsa è stata la settimana dei risultati trimestrali delle società tecnologiche americane, ed è come se Cambridge Analytica non ci fosse mai stata. Facebook, al centro di scandali terribili, ha battuto per l’ennesima volta le previsioni degli analisti, con entrate e guadagni rispettivamente in crescita del 49 e del 63 per cento su base annuale. Perfino il movimento #deletefacebook, che tanto ha imperversato sui media, si è rivelato una bolla: se nell’ultima trimestrale del 2017 il social network aveva registrato una lieve diminuzione degli iscritti in America settentrionale, negli ultimi mesi l’ha recuperata appieno. Alphabet, la compagnia madre di Google, ha visto le entrate aumentare del 26 per cento su base annuale, un altro risultato eccellente – anche se il titolo ha avuto un cattivo risultato in Borsa per l’aumento delle spese. Amazon ha fatto numeri stellari, battendo le previsioni con entrate in aumento del 43 per cento. Giovedì il titolo è cresciuto in Borsa del 7 per cento, segno che il settore tech non è immune soltanto agli scandali mediatici, ma anche alle minacce politiche: Amazon è da settimane sotto l’attacco diretto del presidente americano Donald Trump, e nonostante questo i suoi risultati non sono stati scalfiti. Perfino Twitter, che di solito segnala performance deludenti, è andato abbastanza bene.

  

 

Il primo fattore che verrebbe da considerare è lo scollamento tra i media (che parlano di “techlash” e di decadenza) e la realtà (che si iscrive in massa a Facebook). In verità il techlash, vale a dire la perdita di fiducia nelle società tecnologiche della Silicon Valley da parte degli utenti, è ben testimoniato in ricerche e sondaggi. Tuttavia, alcuni fattori più profondi continuano ad avere la meglio e a evitare che questa perdita di fiducia si veda nei risultati trimestrali.

 

Il primo elemento chiave riguarda il fatto che le compagnie tecnologiche della Silicon Valley, almeno in occidente, hanno un monopolio di fatto su uno dei settori a maggior crescita del mondo. Indipendentemente da chi li gestisca, i settori dell’ecommerce, della ricerca online, dei social media (per non parlare della ricerca sull’intelligenza artificiale e sulle vetture a guida autonoma) avranno un trend di crescita indiscutibile per i prossimi anni, forse perfino decenni. Finché la Silicon Valley domina questi settori, la Silicon Valley continuerà a crescere, al netto di qualche frenata fisiologica.

 

Il secondo fattore, questo certamente sottovalutato, riguarda la dipendenza che i prodotti tech generano negli utenti. Il Financial Times di ieri e l’Economist di questa settimana hanno citato una ricerca (“Using Massive Online Choice Experiments to Measure Changes in Well-being”) appena pubblicata da tre bravi economisti, Erik Brynjolfsson, Felix Eggers e Avinash Gannamaneni, i quali, in uno studio più ampio sul fenomeno del “consumer surplus”, chiedono ai loro soggetti quanto sono disposti a farsi pagare per rinunciare ai servizi dell’economia digitale. In pratica, i tre ribaltano l’idea diffusa per cui gli utenti dovrebbero pagare per ricevere migliori servizi digitali. Ecco i risultati: per rinunciare ai motori di ricerca, gli utenti vorrebbero essere pagati in media 17 mila dollari all’anno. 8.500 dollari per rinunciare alla mail, 3.500 per rinunciare alle mappe con gps, 300 per rinunciare ai social network. Sono numeri impressionanti, che dimostrano come gli utenti attribuiscano ai loro servizi digitali gratuiti un valore sproporzionato: se davvero la ricerca di Google valesse 17 mila dollari l’anno per utente, Alphabet sarebbe una compagnia da 20 mila miliardi di dollari. Ma la ricerca dei tre economisti ci aiuta a scoprire anche perché Facebook, Google e gli altri non risentono degli scandali: siamo dipendenti dai servizi digitali. Le aziende potranno cambiare, le autorità potranno spezzare i monopoli, ma il risultato rimarrà sempre lo stesso: vogliamo le nostre ricerche online e vogliamo i nostri like.

Di più su questi argomenti:
  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.