L'ultimo scatto di Marco Pantani verso le Cascate del Toce al Giro d'Italia 2003 (foto Getty Images)

2024-2024

L'Italia di Marco Pantani

Giovanni Battistuzzi

A vent’anni dalla morte del Pirata, il suo ricordo è ancora vivo in cima a passi alpini e appenninici e in ogni salita che si percorre in bicicletta. Viaggio tra i luoghi e i non luoghi del Pantadattilo 

Il fatto è che non eravamo pronti. Non potevamo essere pronti. Certo a ragionare col senno del poi di indizi ne avevamo avuti che qualcosa non andava per il verso giusto, però non fino a quel punto. Non eravamo pronti a quel 14 febbraio di vent’anni fa. Perché San Valentino l’avevamo sempre conosciuto come il giorno degli innamorati, magari storcendo il naso per le solite menate su consumismo, feste e amore a comando e tutto quello che ci girava attorno, però in fin dei conti quello e solo quello era: il giorno degli innamorati. Quel 14 febbraio del 2004 però, per una parte degli italiani, l’amore su sopraffatto dalla tristezza, una tristezza assoluta, e fu seguita immediatamente dal rimpianto quando vennero a sapere della morte di Marco Pantani.

Chi si è sentito parte della banda di Marco Pantani, chi in quel decennio tra il 1994 e il 2004 era uno di quelli che avevano tifato per lui, si erano commossi ed esaltati per i suoi scatti in salita, ricorda con precisione dov’era e cosa stava facendo quando gli arrivò quella notizia. Ricorda il momento esatto di quel pugno alla bocca dello stomaco che non si aspettava e quei momenti passati a boccheggiare senza saper bene cosa fare.

Per tutta la sua gente, tutti coloro che non lo abbandonarono dopo l’estromissione dal Giro d’Italia del 1999 a Madonna di Campiglio, che non parteciparono, anzi guardarono inorriditi, alla gogna alla quale il Pirata fu sottoposto negli ultimi anni di vita, quel 14 febbraio 2004 rimarrà il giorno del grande terremoto. E a guardarsi indietro è ancora ben visibile la spaccatura che quella scossa provocò, il segno evidente e tangibile di una ferita che non si è mai rimarginata davvero nonostante il tempo passato.

Sono passati vent’anni da allora. Marco Pantani non è però un passato remoto, è ancora in qualche modo un presente che si ripropone, che, ancora, non vuole passare davvero.

     

Ovunque passa il ciclismo ci sono striscioni e scritte sull'asfalto per Marco Pantani (foto Getty Images)  
     

Un presente appeso ai ricordi, certo, ma che si manifesta in scritte gialle sulle strade del Giro d’Italia e di tutte le altre corse che si corrono nel nostro paese. E non solo nel nostro paese.

Un presente che ha le sue coordinate fisse. Anche ben lontane da Cesenatico, la sua città, lì dove ha iniziato a pedalare e da dove è partito il suo viaggio nel ciclismo. Lì dove è sempre ritornato perché per lui era semplicemente impossibile una vita lontana dal suo mare, dalla sua terra, dal suo paese.

Un presente che parte dal mare, com’era partito lui ben prima del 1992, l’anno della vittoria del Giro d’Italia dilettanti, all’epoca Giro baby, e delle prime gare tra i professionisti. E che arriva sino a vette altissime, capaci di solleticare il cielo, o anche meno altissime, più umane per altitudine, e meno altisonanti per nome. Almeno sino a quando lui, Marco Pantani, non le ha sedotte e seducendole le ha rese notorie, le ha innalzate a vette da raggiungere, luoghi di pellegrinaggi a pedali.

E’ tra le alture dell’Appennino tosco-romagnolo, in quel quadrato tra Pennabilli, Carpegna, Villagrande e Maciano, appena sotto i 1.415 metri della vetta del Monte Carpegna, a 1.370 metri d’altitudine, che sul finire del marzo del 2023 il Valico del Monte Carpegna smise di chiamarsi Valico del Monte Carpegna per prendere il nome di Passo Marco Pantani.

Non più valico, ma passo, che fa parecchio più ciclismo, perché è sui passi che si è fatta la storia di questo sport, molta meno se ne è fatta sui valichi. E pure sul – per brevità chiamato solo – Carpegna un po’ di storia del ciclismo è stata fatta. Anche se una storia ufficiosa e non ufficiale, una storia di solitudine in bicicletta, che poi altro non è che la quintessenza di questo mezzo e, in fondo, pure del ciclismo.

Perché era lì che andava per vedere se la gamba era buona, quando faceva l’uscita lunga, quella che doveva dargli la misura del suo stato di forma. “E’ sul Carpegna che ho preparato tante mie vittorie. Non ho bisogno, prima di un Giro o di un Tour, di provare a una a una tutte le grandi salite. Il Carpegna mi basta. Io non le conto più le volte che l’ho fatto, allenandomi. Sempre in giro senza borraccia, perché mi bastano quelle quattro fontane che io so dove sono”, raccontò all’Espresso.

E una di quelle quattro fontane si trova ancora a poche centinaia di metri dal passo fu valico: una fontanella in sassi con l’acqua che scende a volte copiosa a volte un filo appena. E per arrivarci si deve superare una curva che è un belvedere con un muretto in cemento sul quale c’è scritto: “Questo è il cielo del Pirata”.

“Da Urbania, dove vivo, alla cima del Monte Carpegna sono poco meno di quaranta chilometri”, racconta Eugenio Cifurri. “Sul Carpegna ci sono andato sin da quando ero piccino, o con mio padre o con mio zio, sempre a cercare funghi, ché là ci sono dei porcini che te li raccomando, sono spettacolari”. Ora Eugenio non ci va solo a cercare funghi. “Erano i primi giorni di giugno del 1991, tempo delle prime buttate, ameno per quell’anno, e stavamo salendo in macchina verso la cima del valico quando sulla strada ci troviamo un ragazzino con la maglia blu e rossa che andava su come invece di bicicletta c’avesse un motore. Noi parcheggiamo più o meno alla fontanella, che non molto distante c’è una zona buona per i funghi. Tempo di riempire le borracce e accenderci una paglia e quel ragazzetto secco duro e con i ricci era già là. Si fermò alla fontanella e riempì la borraccia. Gli dissi: ‘Bestia se vai forte’. E lui un po’ imbarazzato mi fa: ‘Mi sto preparando per il Giro d’Italia. Quello dei giovani eh, ma lo voglio vincere. E un giorno pure quello vero’. Io pensai che era un patacca, anche se effettivamente andava forte parecchio. Poche settimane dopo lo vidi in una foto sul giornale che era arrivato secondo al Giro d’Italia dilettanti (che all’epoca si chiamava Giro Baby, ndr)”, ricorda Eugenio. 

“Per qualche anno mi dimenticai di quello smilzo, poi, quando nel 1994 vinse la prima tappa al Giro d’Italia quello vero, mi ricordai di lui. E da allora mi appassionai al ciclismo. Avevo venticinque anni. Non ho ancora smesso”. E così Eugenio ogni 5 giugno, il giorno della seconda vittoria di Marco Pantani al Giro d’Italia, “all’Aprica, che poi fu la prima tappa del Giro che io vidi”, cascasse il mondo tira fuori la bicicletta dal garage, sale in sella e arriva fino al fu valico del Monte Carpegna, ora passo Marco Pantani. “Perché quel 5 giugno io mi innamorai del ciclismo e della bici e mi piace ricordarlo così il mio anniversario d’amore. Mia moglie mi dice che voglio più bene alla bici che a lei. Non è vero. Lo sa benissimo che voglio bene alla bici e a lei allo stesso modo”.

   

     

Circa cinquecento chilometri a nord-ovest del Carpegna si trova un altro passo Marco Pantani. E’ il passo dello Scopello, che collega Cannobio (sul Lago Maggiore) a Domodossola. “Formalmente, almeno per lo stato italiano è ancora il passo dello Scopello, ma in cima c’è un cippo con su scritto passo Marco Pantani e quindi per noi è passo Marco Pantani”, racconta Livio Monti, laghee di Sesto Calende, ma da decenni a Locarno a fare l’architetto. “La stele ce la mise il fan club di Marco Pantani della zona. Sinceramente non so se lo sa il comune, ma credo di sì”. Un bene, in ogni caso: “Così dà almeno un po’ di lustro a una salita che il Giro se l’è mai considerata granché. Pure nel 2003, nella tappa che finiva alle Cascate del Toce il gruppo non ci passò”.

Quella tappa, la diciannovesima del Giro d’Italia 2003, la Canelli-Cascata del Toce, 239 chilometri, fu quella dell’ultimo scatto di Marco Pantani. “Quel giorno avrei dovuto lavorare, ma chiusi lo studio perché c’era qualcosa di più importante del lavoro: c’era il Giro d’Italia. Salii con un paio di amici e due borse frigo piene di birre. Ci eravamo messi in uno dei tratti più duri, conosciamo bene quella salita. Eravamo alla fine di un rettilineo quando vedemmo Marco Pantani alzarsi sui pedali e scattare. Fu una libidine pazzesca. Eravamo là, nel posto e nel momento giusto. Eravamo sicuri che ce ne sarebbero stati altri, perché certo lui aveva oltre trent’anni, era un po’ imbolsito e da anni non combinava nulla, ma noi sapevamo che era il migliore e che ci avrebbe dato ancora almeno una gioia. Quando uscì il percorso del Giro 2004 c’eravamo detti di andare su a Bormio 2000 per vederlo. Poi arrivò il 14 febbraio. Quel giorno piansi. Avevo trentadue anni e mi ritrovai a piangere come un bambino”.

E’ soprattutto un giro ad alta quota quello di Marco Pantani nel ciclismo. Un presente di passi alpini e di cieli montani che lui paradossalmente non si è mai gustato.

Disse nel 2000, con voce flebile piena di insicurezze alla vigilia del Tour de France, che “ho sempre cercato di non alzare troppo lo sguardo. Perché vedere ciò che ti aspetta, ciò che dovrai trovarti ad affrontare, può bloccarti. Non mi sono mai gustato nemmeno le montagne. A volte ho sentito raccontare amici e conoscenti che sull’Izoard, sullo Stelvio, sul Tourmalet ci sono panorami meravigliosi e scorci incantevoli. Ogni volta che sento questo un po’ mi vergogno di dire che non me ne ricordo uno, perché non ne ho mai visto uno”.

Andare forte in bicicletta, correre per arrivare primo, è soprattutto privazione dell’incanto della montagna, impossibilità di godere della bellezza che ci sta attorno. Marco Pantani le strade montane le ha domate, su quelle strisce d’asfalto tutte curve e tornanti, s’è fatto applaudire, inneggiare, amare. E’ diventato storia di questo sport, ricordo condiviso del nostro paese, è stato innalzato e inneggiato come uno degli scalatori più forti della storia – c’è chi dice il più forte, chi non è d’accordo, ma sono queste sempre discussioni che lasciano il tempo che trovano e che non hanno alcun valore. S’era ripromesso “quando smetterò, vorrei ritornarci per pedalarle piano, una per una, e vedere così quello che mi sono perso”. Non ci riuscì, non ebbe il tempo.

A godersi lo spettacolo dei monti sono le sue statue, i tributi che l’Italia del ciclismo gli ha dedicato.

Come quella ai 2.484 metri del Passo Fauniera, o quella in cima all’ottavo chilometro della strada che da Mazzo di Valtellina porta in cima al passo del Mortirolo. O quella sulla vetta della salita delle Crocette, a nove chilometri da Fondi, o a Poggio Murella, borgo a sette chilometri da Saturnia. Oppure la scultura posizionata sulla strada che porta al Santuario d’Oropa, lì dove a Marco Pantani saltò la catena al Giro d’Italia del 1999 e si dovette fermare. Incipit sfortunato di una delle più grandi imprese ascensionali della storia del ciclismo.

“Quando penso a quel giorno sorrido. Quando penso a Marco Pantani sorrido. Sorrido perché in fondo Marco Pantani ha dovuto competere non solo con gli avversari, ma anche con la sfiga. Per questo ci sentivamo pantaniani, perché tutti noi comuni mortali, che in un modo o nell’altro abbiamo avuto a che fare con la sfiga, vedevamo in lui una speranza, una redenzione”, racconta Mario Bonino, che da giovane in bicicletta prometteva parecchio bene, ma poi al ciclismo preferì gli studi in medicina. “Volevo fare il neurochirurgo, sono diventato cardiologo. Lo capii un giorno mentre salivo verso la cima del Mottarone che quella era la mia strada. Pedalando si capiscono molte cose. Quando ritorno da Genova, dove lavoro, a Biella, dove sono nato, ogni tanto salgo fino al Santuario di Oropa in bicicletta. Certo ci metto diverse decine di minuti in più di quanto ci impiegò il Pirata quel 30 maggio 1999. E tornando a casa mi sento contento. Contento per la pedalata, contento per aver fatto ciò che mi piace fare di più, contento soprattutto per essere stato quel giorno sulla strada che porta a Oropa. Contento perché ho visto correre Marco Pantani, perché certe cose uno deve viverle nell’attimo nel quale accadono. E lui è una di quelle cose. Non penso a quello che è successo dopo, perché con Pantani non deve esserci spazio per la tristezza. Penso a quel giorno là, a quella tappa”.

   

Marco Pantani indossa la sua prima maglia rosa al termine della 17esima tappa del Giro d'Italia 1998, la Asiago-Selva di Val Gardena (foto Ansa)
       

Il tributo più imponente al Pirata è quello in cima a Plan di Montecampione, più o meno nel posto nel quale Marco Pantani, vestito di rosa, allargò le braccia e chiuse gli occhi al termine della 19esima tappa del Giro d’Italia 1998. Prima, su quella salita, era andato in scena uno dei duelli più emozionante del ciclismo: un’ascesa tutta scatti e accelerazioni, un uno contro uno con Pavel Tonkov che valeva un Giro d’Italia. E’ stata innalzata nel 2021, è alta sei metri ed è stata realizzata in lamiere di acciaio, della stessa “pasta” delle biciclette di un tempo.

Lì, a 1.732 metri sul livello del mare, il Pirata è immortalato in quella posa degna di una crocefissione, perché in fondo la passione ciclistica ricalca, almeno in alcuni tratti la Passione. E’ qualcosa che ti sfibra, ti dilania, ma che allo stesso tempo ti porta a uno stato successivo, a tratti mistico.

Quell’immagine di lui a braccia larghe, con il viso sofferente, sfibrato dalla fatica, sereno senza essere gioioso “la vidi sul giornale il giorno dopo. Quel giorno, quel 4 giugno del 1998, non l’avrei potuta vedere. Io e il mio compare c’eravamo messi più giù, a tre o quattro chilometri dall’arrivo”, racconta Enrico Bortotto, friulano trapiantato sul lago d’Iseo per lavoro. “Eravamo a bordo strada, Marco Pantani ci passò davanti sui pedali, leggero e potentissimo. Aveva la testa bassa, gli occhi sull’asfalto, tutt’attorno un boato di grida, di ‘vai’, di gioia festosa. Dietro a lui c’era il vuoto. Pavel Tonkov ci passò davanti dopo una dozzina di secondi, forse poco più. Aveva l’espressione di chi aveva preso una mazzata, ma continuava ad andare il più veloce possibile perché ancora animato dalla speranza che non tutto fosse finito. Era un grande Pavel Tonkov, un corridore di grande talento e corretto. Ci furono applausi pure per lui, certo meno intensi, ma a un rivale del genere, a un corridore come lui non si poteva voler male”. Ci furono applausi per tutti, anche se la festa era già iniziata. “A un certo punto ci trovammo in una bolgia con quattro damigiane di rosso e bicchieri al cielo da tutte le parti. La radio aveva informato che Marco Pantani aveva vinto la tappa, che aveva racimolato altri 57 secondi e che ora aveva quasi un minuto e mezzo di vantaggio su Tonkov. Bastavano, ci dicemmo. Eravamo sicuri che a Milano, qualche giorno dopo, la maglia rosa ce l’avrebbe avuta Marco sulle spalle”.

    

Fu festa lunga. “Tornammo a casa alle due di notte e completamente ubriachi. Fu una sbronza collettiva quel giorno”.

Enrico Bortotto al Plan di Montecampione ci torna spesso, “almeno due o tre volte all’anno. Ho cinquantasette anni, ma sono ancora in ottima forma: merito anche degli otto-novemila chilometri all’anno che mi faccio in bicicletta”. Ora riesce a tornarci senza quella sensazione di rimorso che lo ha afflitto per anni: “I primi anni dopo quel 14 febbraio del 2004 furono difficili. Era complicato seguire il ciclismo per me, figurarsi pedalare lì dove lui aveva vinto. Poi il tempo sistema le cose. E a ogni scalata al Plan mi riempio di felicità: mi sento un po’ lui e questo è un dono pazzesco che ci ha lasciato”.

“Marco Pantani era la buona ragione per vedere il ciclismo. Mio padre diceva sempre questo”, dice Marco Borriol Gagé. Fa il designer per un noto marchio di biciclette americano. E’ nato a Gap nel 1998 e “Marco l’ha voluto mio padre. Mia madre era contraria, voleva chiamarmi Jacques, ma non ci fu verso”. Racconta Marco che suo padre “scelse quel nome per Marco Pantani perché, diceva, ‘è semplicemente il migliore” e ‘non ci sono nazionalità quando c’è di mezzo il bello’. Sognava di vedermi trionfare al Tour, ma gli andò male. Nel 2013 mi portò a vedere il Giro d’Italia che arrivava in cima al Galibier e ci mettemmo vicino al monumento che ricordava Pantani e la sua impresa al Tour. Faceva un freddo cane, nevicava e non mi sentivo le mani. Quel giorno capii che non avrei mai fatto il ciclista. Quando è morto io già disegnavo alcuni pezzi per le biciclette. Spero sia fiero di me ora che ne ho curato il progetto di un telaio. Il file l’ho chiamato MP1998, ma quando verrà prodotta mi sa che non avrà quel nome”.

Sono passati vent’anni dalla morte di Marco Pantani e c’è ancora chi grida mentre stai pedalando en danseuse sui pedali: “Scatta Marco Pantani”. Chi ti apostrofa: “E chi sei Marco Pantani?”.

A volte capita di vedere sull’asfalto di strade che non sono mai state toccate dal Giro d’Italia, che tra i nomi di giovani promesse locali una scritta gialla PANTANI, con la P grande e la gobba lunga a coprire come un tetto tutte le altre lettere.

A volte Pantani appare nei pensieri quando ci si alza sui pedali e si sorride per il paragone del tutto inappropriato. Perché in fondo l’Italia di Pantani va oltre le coordinate dei suoi scatti, è qualcosa che ci insegue e non ci lascia, che ci precede sulle salite, ma solo perché più veloce. Com’era lui.

Perché c’aveva ragione Gianni Mura, Marco Pantani era un Pantadattilo, una strana creatura sopravvissuta non si sa come all’evoluzione del ciclismo. E forse è per questo che è ancora un presente.

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