Marco Pantani è morto il 14 febbraio di 20 anni fa. Oggi avrebbe 54 anni (foto Getty Images) 

Il Foglio sportivo

Perché amiamo ancora Marco Pantani

Giovanni Battistuzzi

A vent'anni dalla morte il Pirata è ancora indimenticabile. Era una scarica di adrenalina. Talento, forza di volontà e incapacità di darsi per vinto (almeno sino a Madonna di Campiglio)

L’ultimo duopolio della passione iniziò a contrarsi nel 1994. Quei due, Gianni Bugno e Claudio Chiappucci, avevano dato i primi segnali di logoramento e, benché rappresentassero ancora due partiti ben distinti e impossibili da sovrapporre, stavano iniziando a essere sempre meno attraenti. Va così nello sport: il sentimento di vicinanza dura a lungo, forse una vita intera, la passione molto meno, di solito finché si finisce tra i primi nelle gare importanti.

Gianni Bugno e Claudio Chiappucci rappresentarono l’ultima divisione totale del ciclismo italiano. Un po’ come Costante Girardengo-Giovanni Belloni, Alfredo Binda-Learco Guerra, Gino Bartali-Fausto Coppi, Francesco Moser-Beppe Saronni, Dc-Pci. L’Italia si è sempre divisa (quasi) a metà per qualcosa. Sarà per il campanilismo genetico; sarà per il gusto della diatriba; sarà, forse, perché in fondo una vittoria sentita nostra è sempre meglio se c’è una sconfitta altrui.

Poi arrivò il 1994 e tutto iniziò a scricchiolare.

Poi arrivò l’estate del 1997 e tutto crollò.

I due poli magnetici si contrassero e ne restò uno solo. E quel polo era Marco Pantani.

Marco Pantani introdusse in Italia il partito unico del tifo ciclistico. Perché c’era nessuno come lui all’epoca. Nessuno capace almeno di far battere il cuore come lui.

Certo un vero antagonista in giro, almeno in Italia, non c’era. Perché Ivan Gotti era un ottimo corridore, ma non aveva il piglio del campione. Perché Gilberto Simoni era scalatore temibilissimo, ma a causa di problemi fisici e familiari, divenne grande protagonista con qualche anno di ritardo.

Eppure tutto questo passa in secondo piano quando c’è di mezzo Marco Pantani. Perché quando il Pirata si alzava sui pedali era una scarica di adrenalina, un’apparizione sorprendente. Il suo alzarsi sui pedali con le mani basse sulla piega del manubrio, la testa e le spalle protese in avanti era un gesto rivoluzionario. Almeno in un ciclismo che era diventato un procedere sempre più veloce di gente seduta sulla sella mentre la strada puntava verso le vette montane e nel quale la differenza si faceva contro il tempo, pedalando su biciclette che poco o nulla avevano in comune con quelle a cui si era abituati a vedere.

Marco Pantani era un assalto continuo, uno scatto dietro l’altro, lo sfibramento delle resistenze altrui. Talento, forza di volontà e incapacità di darsi per vinto.

   

Marco Pantani (foto Ansa)
      

Marco Pantani aveva in sé l’essenza della montagna, perché veniva dal mare e la montagna se l’era scelta come compagna di vita, almeno ciclistica. E non c’è niente di meglio di un passo alpino o pirenaico o appenninico quando si va in bicicletta. È salendo verso la cima, mentre l’aria si rinfresca e l’ossigeno si rarefà mano a mano che i metri sul livello del mare aumentano, che la libidine del pedalare e del ciclismo cresce. E quando correva e scattava in salita Marco Pantani la libidine esplodeva e univa tutti in un monocolore giallo che mai si era manifestato sino allora nel ciclismo italiano.

Un monocolore giallo che terminò a Madonna di Campiglio la mattina del 5 giugno 1999 quando arrivò la notizia dell’esclusione di Marco Pantani da quell’edizione del Giro d’Italia a causa del valore troppo alto di ematocrito.

Il partito unico implose. La frattura fu totale: da una parte chi avrebbe perdonato qualsiasi cosa a Marco Pantani, dall’altra chi si sentì tradito e puntò il dito contro il Pirata gridandogli contro l’insulto più in voga di allora: dopato. Una caduta è tanto più dolorosa quanto più in alto si è, e Marco Pantani era all’epoca nell’iperuranio.

Con lui rimase soltanto chi aveva visto in lui una speranza, chi aveva dovuto sempre combattere con le tante piccole sfighe della vita e che non si era mai dato per vinto. Perché Marco Pantani a terra era finito tantissime volte e per ragioni che avevano poco o nulla a che fare con i propri errori.

Per loro Marco Pantani è ancora un presente, anche se sono passati vent’anni dalla morte. Anche se altri corridori si sono alternati nelle preferenze e il ciclismo ci ha regalato nuove e mirabolanti imprese. Sono forti i ragazzi di oggi. Marco Pantani però era unico.

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