Foto Ap, via LaPresse

dopo la vittoria all'Australian Open

Jannik Sinner dopo Marco Pantani, un altro innamoramento collettivo

Giovanni Battistuzzi

Il tennista e il ciclista sono diverssimi, tanto quanto il tennis dal ciclismo. Eppure c'è nelle loro parole un tratto in comune: quell’intelligenza emotiva capace di arrivare dirette come un dritto o uno scatto a chi l'ascolta

C’eravamo dimenticati l’effetto che fa un innamoramento collettivo. In pochi mesi Jannik Sinner da noto tennista italiano (anche se a causa di una non partecipazione nelle file della Nazionale di Coppa Davis, peraltro giustificata e giustificabile, il Südtirol era diventato Austria e lui austriaco) è diventato il centro dell’interesse sportivo in Italia. Al punto che anche chi ha un totale disinteresse per il tennis, sa benissimo chi è Jannik Sinner e che ha vinto, primo italiano nella storia, l’Australian Open

È da un po’ che non succedeva qualcosa del genere e c’eravamo scordati com’era. Sono passati quasi ventisei anni dall’ultima botta di appassionatismo collettivo, da quel trascinante ed esaltante senso di aderenza a un atleta, che è un mescolarsi di trasporto emotivo, passione sportiva, senso di appartenenza a un qualcosa che si chiama Italia. Accade sempre quando non c’è di mezzo un pallone, perché si sa che il paese è calciofilo di vocazione e quindi, eccezion fatta per quando la Nazionale va bene e arriva almeno ai quarti di Mondiali ed Europei, diviso in colori che difficilmente permettono un’innamoramento collettivo.

Tenevano tutti a Marco Pantani in quell’estate del 1998 perché Marco Pantani pedalava una bicicletta e non tirava calci a un pallone. E perché sulla bicicletta era una meraviglia vederlo e, soprattutto, vinceva. Giro d’Italia e Tour de France in poco più di due mesi, una cosa pazzesca, riuscita prima di lui a pochissimi (Coppi, Anquetil, Merckx, Hinault, Roche e Indurain) e dopo di lui a nessuno ancora. Una doppietta ancor più eccezionale perché insperata e ottenuta dopo anni di sfortune divenute antonomasia.

Il mondo delle racchette ha poco o nulla di quello delle biciclette. Pure Jannik Sinner ha poco o nulla di Marco Pantani, sia per storia che per temperamento. A partire dallo sguardo. Sereno e compiaciuto quello del tennista, per quanto un filo timido e stupito, che quasi chiede: davvero sono tutti interessati a me? Energico e tormentato quello dello scalatore romagnolo, entusiasta della ribalta, ma venato di una malinconia dubbiosa.

Eppure c’è qualcosa nel Sinner parlante, quello che appare prima e dopo il Sinner tennista, che ricorda Marco Pantani. E sono le parole che fa uscire, frasi dense di quell’intelligenza emotiva capace di arrivare dirette come un dritto o uno scatto a chi le ascolta. Quella capacità di fuggire dall’ovvio e dal banale che spesso riempie bocca e pensieri a tanta gente nota, e non solo sportiva. E non è volontà di fare i diversi, i particolari o di filosofeggiare. E nemmeno quella simpatia naturale che rendeva Valentino Rossi prossimo a noi, il compagno di risate di tanti pomeriggi.

Jannik Sinner ha quella capacità di smarcarsi da quello che ci si aspetta, di ciò che sembra ineludibile dover ascoltare da una persona di sport. Perché una dedica alla mamma (e al papà) è arcitaliano si sa. Non lo è un “auguro a tutti di avere dei genitori come i miei, che mi hanno sempre lasciato libero di scegliere”. Non lo è “ho avuto fortuna nella vita, però non quella di giocare contro Federer. Ed è una grossa mancanza”. Non lo è: “Dicono che sorrido troppo spesso anche se perdo? Mah. Dovrei piangere? Tutto sommato mi sembra di essere in attivo con la vita”.

Pantani scattò dall’ovvio quando Gianni Mura gli chiese perché andasse così forte in salita, rispose: “Per abbreviare la mia agonia”. Pantani quando parlava riusciva a destabilizzare, riusciva a cogliere qualcosa che altri non avevano nemmeno visto. E riusciva a fartelo arrivare semplice, “masticato” come riassunse con abile sintesi Enzo Jannacci.