Marco Pantani sul Galibier durante la quindicesima tappa del Tour de France 1998 (Foto  Eric Gaillard / ANSA-REUTERS)

Marco Pantani era un noi

Giovanni Battistuzzi

Perché a oltre vent'anni da Madonna di Campiglio e a quasi diciotto dal suo addio, ogni volta che vediamo una maglia gialla in bicicletta o ci alziamo sui pedali il suo ricordo riaffiora? Al cinema il docufilm “Il Migliore. Marco Pantani” di Paolo Santolini 

Mica vero che il tempo sistema ogni cosa, che sfuma i contorni, che attenua il nero trasformandolo in toni di grigio. Lo scorrere dei giorni e degli anni non riesce mai a restituire quello che abbiamo perduto. È solo che si mette in mezzo la quotidianità, che accumula immagini e voci, distraendoci. Eppure quel senso di abbandono resiste a tutto questo, non si ripara da solo, al massimo si allontana, viene messo in disparte, come un oggetto rotto che si accantona millantando una futura accomodatura. Il tempo è un placebo, sta a noi convincerci che funzioni. 

Le ferite si possono pure rimarginare, ma rimane un segno sulla pelle, piccolo o grande che sia, che ci riporta al luogo e al tempo nelle quale si sono formate. Quel luogo e tempo, per un numero indefinibile di persone è Madonna di Campiglio il 5 giugno del 1999. Quando Marco Pantani venne estromesso per ematocrito alto da un Giro d’Italia che stava dominando

 

Sono passati oltre vent’anni da allora. Marco Pantani non c’è più dal giorno di San Valentino del 2004. Eppure basta una foto, un video, oppure soltanto il nome di una salita per sentirsi parte ancora di una storia plurale. Perché Marco Pantani era un noi. Noi che la bicicletta anche in camera da letto. Noi che il mondo lo avevamo scoperto pedalando e che non avremmo voluto fare altro. Noi che non avevamo mai visto nulla di simile sui pedali. Soprattutto noi che vedendolo pedalare, cadere, rialzarsi e vincere, avevamo iniziato a sperare, e forse a crederci davvero, che anche la sfiga dalla quale ci sentivamo attanagliati poteva essere superata, messa da parte, sopraffatta. Non era davvero così, ma per anni ne siamo stati convinti. Tant’è.  

 

Foto Ansa
 

Mica vero che il tempo sistema ogni cosa, se basta alzarsi sui pedali con le mani basse a stringere la piega del manubrio o vedere una maglia gialla per riaccendere quella malinconia che chi l’ha visto correre e scattare sa che non se ne potrà andare mai. Figurarsi un docufilm. Figurarsi “Il migliore. Marco Pantani” di Paolo Santolini

Sarebbe bastato fare un collage dei video delle sue evasioni ascensionali per far capire quale fortuna ha avuto chi ha potuto vedere il ciclismo degli anni Novanta. Lo scatto sul Passo Monte Giovo, l'assolo sul Mortirolo, le fughe su Fedaia e Galibier, Plan di Montecampione o Plateau de Beille, la rimonta a Oropa, l'ultimo assolo a Courchevel. Sarebbe servito nient’altro che questo per raccontare la magnificenza di quello scricciolo di 55 chili che si arrampicava sulle montagne come nessuno faceva all’epoca e in pochi hanno fatto nella storia.

Sarebbe bastato, ma sarebbe stato ingiusto. E Paolo Santolini non l’ha fatto.  

Del Pantani in bicicletta nel docufilm c’è poco, ma abbastanza, sicuramente meno di quello che si poteva pensare. Eppure c’è tutto e di più di quello che sinora si è visto in speciali e retrospettive sul campione romagnolo. Si dipana nelle parole di familiari e amici, in quel presente allungato che ancora avvolge chi ha voluto bene, in un modo o nell’altro, a Marco. È un’opera di ricordo collettivo, un noi narrante, che tiene dentro Cesenatico, la Romagna, la bicicletta e che in tutto questo dà l’esatta dimensione di cos’è stato Marco Pantani e di cos’è la bicicletta. Un noi. Socialità. 

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