Foto LaPresse

Crocicchi #20

Una Serie A semiautomatica: i forti vincono, i deboli al massimo vincono tra loro

Enrico Veronese

L'Inter stravince a Monza, il Milan supera la Roma e si allontana dalle inseguitrici che puntano alla qualificazione alla Champions League. Difficilmente il calciomercato potrà spostare gli equilibri

Dopo il fuorigioco semiautomatico, è l’intero campionato italiano di Serie A a diventarlo. Semiautomatico, per fortuna non ancora del tutto: è semiautomatico che l’Inter, una volta in vantaggio, dilaghi anche sul campo di una squadra solida e attrezzata come il Monza, fin qui soddisfacente in difesa. È semiautomatico che con tre passaggi Henrikh Mkhitaryan, Federico Dimarco e Lautaro Martínez vadano in porta, lo è parimenti considerare come Hakan Çalhanoğlu – uno scarto della Bundesliga, uno scarto del Milan – sia diventato forse il giocatore più decisivo del torneo. E via così: è semiautomatico pensare che la Juventus, vinca o meno in casa contro il Sassuolo, non verrà staccata oltremodo dalla vetta, ed è semiautomatico vedere il Milan che staziona alle sue spalle, in una linea di galleggiamento che lo tiene relativamente indenne dalle paturnie del pollaio in lotta per l’Europa.

Sarà che in questo periodo escono film belli ma troppo didascalici, in cui allo spettatore viene spiegata tutta la pedagogia retrostante, ma pure il calcio si sta facendo leggere per quel che è: i forti vincono, i deboli al massimo vincono tra loro (la retorica di ultimi e penultimi), chi sta cercando di rafforzarsi non ha continuità. E al mercato di gennaio, con le sue ossa stanche, non è dato spostare gli equilibri: Leonardo Bonucci è ormai buono al massimo per il Fenerbahçe, i cavalli sono di ritorno – Matteo Gabbia, Szymon Żurkowski – e non di razza, migrano soprattutto i difensori, da Isak Hien a Kevin Bonifazi, da Dean Huijsen a Lautaro Giannetti. I colpi si contano sulle dita di un ungulato: Tajon Buchanan, Tiago Djaló appena metterà piede a Torino.

Sono sempre i migliori quelli che partono: Radu Drăguşin ha scelto non già il Tottenham Hotspurs, bensì la Premier League, rispetto al venerabile Bayern Monaco che gli offriva anche di più. Il mito è inglese a prescindere, il Milan che cerca il 35enne Nemanja Matić – eccellente atleta, ma se il Rennes lo sbologna qualcosa vorrà dire – è la spia di quanto sia malato il calcio italiano fin da quando Walter Fontana lo dichiarava alla Gialappa’s Band. Lo conferma la Coppa Italia: una formula respingente, di sera in pieno inverno subalpino, in casa della favorita e con il calendario iper sgranato. Poco importa che Jürgen Kohler si reincarni in Gleison Bremer, o che Weston McKennie stupisca prima di tutto se stesso, migliorandosi sempre fino al movimento del piede durante il lancio per Arek Milik: se non si vince ai rigori, si vince di rigore, quasi sempre.

Mentre il focus degli osservatori è puntato verso la Costa d’Avorio, dove è appena iniziata la Coppa d’Africa, e in Qatar, i cui stadi dei Mondiali ospitano la massima competizione asiatica per nazioni. Caccia al saldo, scouting rovente, promesse minorenni da piazzare in provincia per osservarne la crescita e risparmiare sul prodotto finito: ma se Alessio Cragno, dotato di buona stampa, fa panchina sia a Monza che a Sassuolo, non sarà mica che qualcuno lo aveva sopravvalutato?

Anche i crocicchi, nel loro piccolo, d’inverno gelano ed è più difficile cambiare in corsa partite indirizzate bene, o male: anche per un palo come quello colpito da Giacomo Bonaventura, che poteva deviare le sorti di Fiorentina-Udinese al 90°, riportando in alto i viola e prevenendo il risucchio delle crescenti Lazio, Atalanta e Napoli, viene calibrata l’importanza secondo il contesto. “Ma sì, in fondo giusto così”, “non hanno rubato niente”, i pareggi muovono la classifica e via di giustificazionismo: il Bologna domina ma non vince più? “Ha comunque fatto più del previsto”. L’Inter stavolta non getterà al vento la propria manifesta superiorità? “E che sarà mai”.

Di più su questi argomenti: