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Il Foglio sportivo

Come sta cambiando il ruolo del direttore sportivo nel calcio italiano

Marco Gaetani

Dai modelli di Marotta-Ausilio o di Giuntoli a quelli di Milan, Lazio e Napoli. Sta tramontando il fascino dei ds

Io non so quando è nata mia figlia, ma so esattamente che il 23 dicembre 1976 abbiamo fatto 2-2 con l’Udinese”, urla un paonazzo Ugo Tognazzi a un gelido Lino Capolicchio in una delle scene più drammatiche di “Ultimo minuto” (1987, regia di Pupi Avati), quella in cui il protagonista, il direttore sportivo Walter Ferroni, capisce che il nuovo presidente della squadra per la quale ha sacrificato gli anni migliori della sua vita sta per detronizzarlo dal ruolo di plenipotenziario. Solo in Italia sarebbe stato possibile girare un film su un direttore sportivo, una figura che fuori dai nostri confini non assume la rilevanza mediatica tipica del nostro calcio. Eppure, dopo anni in cui l’uomo forte al centro degli affari di mercato ha dominato le scene estive, lo scenario sta lentamente cambiando, con alcune società che hanno iniziato a battere strade totalmente opposte a quelle classiche.

La tradizione eretta su una pietra angolare come Italo Allodi e portata avanti negli anni dal suo delfino Luciano Moggi è ancora presente e sono molte le squadre che si affidano a dirigenti in grado di indirizzare il mercato con filosofie precise, scelte e trame di contatti essenziali a questo livello: da Giuseppe Marotta, ad dell’Inter che da sempre ama affiancarsi a un ds cui delegare compiti più operativi, come nel caso di Piero Ausilio, a Giovanni Carnevali, mister Sassuolo, il dirigente capace di tenere alta la bandiera neroverde anche dopo la scomparsa del patron Giorgio Squinzi; da Cristiano Giuntoli, architetto del Napoli tricolore e oggi al timone della barca juventina, a Pantaleo Corvino, l’incarnazione più fedele dello scopritore di talenti, senza dimenticare uno dei più ispirati dirigenti che abbiano mai attraversato il nostro calcio, Giovanni Sartori, oggi responsabile dell’area tecnica del Bologna dopo aver dato vita al miracolo Chievo e aver portato l’Atalanta ai vertici della Serie A. 

Ma questa bollente estate del 2023 è anche quella in cui il Milan ha rinnegato l’epoca del duo Maldini-Massara, attirandosi gli strali di buona parte del tifo rossonero e ripartendo da figure interne al club: la nomina di Antonio D’Ottavio, fin qui responsabile dello scouting del settore giovanile, ha i crismi della scelta compiuta esclusivamente per adempimenti burocratici, con le linee guida tracciate da Giorgio Furlani, amministratore delegato già dallo scorso novembre, e il capo dello scouting Geoffrey Moncada. Un mix di figure che aveva generato non poca ansia al momento dell’addio di Sandro Tonali, direzione Newcastle, e che invece ha scelto di agire seguendo strade decisamente interessanti. Gli ingressi già certificati di Loftus-Cheek, Pulisic e Reijnders (con Okafor ai dettagli) sono il biglietto da visita di un gruppo dirigenziale che ha le idee chiare e ha saputo schivare il pericolo principale innescato dalle polemiche e dal fatto di avere per le mani un tesoretto imprevedibile a inizio mercato: il Milan non è andato in modalità “panic buying”, anzi, si è mantenuto pienamente lucido anche se, come sempre, il giudice definitivo rimane il campo. 

Fino a qualche mese fa, anche la Lazio era rappresentata da un uomo solo al comando: Igli Tare è stato direttore sportivo dei biancocelesti dal 2009 al 2023, mostrando una longevità pressoché senza precedenti, tra colpi geniali (Milinkovic-Savic, Luis Alberto) e flop epocali. Il nuovo ds, al momento, non c’è: da un lato si parla di una talent room, un progetto di scouting all’interno del quale sarebbero stati inseriti Angelo Fabiani, direttore sportivo di lungo corso, già collaboratore fidato di Lotito alla Salernitana e portato a Roma nel 2022 come ds della Lazio Women e della formazione Primavera maschile; Gianni Picchioni, fedelissimo di Maurizio Sarri, da anni nello staff tecnico dell’allenatore, e Armando Calveri, segretario generale del club dal 2010, che aveva vissuto momenti di gloria nelle settimane in cui era stato spedito in Argentina per ottenere la firma sul contratto da parte di Marcelo Bielsa. Dall’altro, però, l’ultima parola spetta a Claudio Lotito, almeno stando a una sua recente intervista al Corriere dello Sport: “A Sarri ho chiesto di indicarmi delle posizioni da coprire, i giocatori poi li scelgo io”. 

Più tradizionale, ma comunque di rottura, la scelta del Napoli, che ha sostituito Cristiano Giuntoli con un dirigente lontano dai grandi giri, Mauro Meluso, l’uomo che, da calciatore finì al centro di uno degli aneddoti più raccontati da Beppe Signori e Zdenek Zeman: quando il boemo accolse nel ritiro del Foggia l’ex trequartista del Piacenza salutandolo con la frase “Ciao Bomber”, il futuro Beppe-gol non si girò, convinto che stesse parlando con Meluso. Proprio da Foggia era partita la carriera da direttore sportivo dell’erede di Giuntoli. Una gavetta infinita, infiammata da alcune imprese degne di nota: l’ottimo lavoro con budget risicatissimi a Cosenza, il doppio salto dalla C alla A con il Lecce, la salvezza al primo anno in A con lo Spezia. “Quando mi ha chiamato De Laurentiis sono rimasto sbalordito: non che non me lo meritassi, ma non pensavo fosse questo il momento”, ha raccontato con brutale onestà, aggiungendo poi quello che in molti hanno pensato al momento dell’annuncio: “In una società così importante non si lavora con una sola persona che decide, lo si fa insieme e si prendono decisioni di concerto. Il presidente lo conoscete, è un decisionista, e ha un peso importante”. Non bisogna però dimenticare che anche Giuntoli era stato scelto fuori dai nomi di grido, pescato con acume dopo il miracolo Carpi. 

Non è un caso, dunque, che l’epitome del direttore sportivo italiano degli ultimi anni, Walter Sabatini, abbia deciso di fare un passo indietro, aprendo una società di consulenza che avrà il compito di affiancarsi ai club che riterranno di avere bisogno, occasionalmente o in maniera più strutturata, dei suoi servigi. Nel calcio del domani, la figura del direttore sportivo rischia dunque di diventare più sfumata, con contorni sempre più vaghi, indefinibili. E, forse, anche meno affascinanti.

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