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Serie A

È stata la mano di Cristiano Giuntoli, cicloturista del calcio

Giovanni Battistuzzi

Il direttore sportivo del Napoli era un calciatore discreto, affidabile, buono per la serie C e la D, non un campione, ma uno capace di capire cosa andava fatto e di scegliere il momento giusto per farlo. Doti che lo hanno reso un ottimo dirigente

Nel calcio ci sono mestieri che impongono di trovare soluzioni semplici a problemi complessi. Quello del direttore sportivo è uno di questi. Conta la capacità di analisi, conta la capacità di gestione del gruppo, conta l’abilità di immaginare strade alternative se quelle consuete diventano impercorribili. E accade sempre più spesso quando si deve, in un modo o nell’altro, far di conto bene se le risorse sono limitate in un mondo dove alcuni hanno limiti ben diversi, molto più larghi, quasi indefiniti. Il direttore sportivo del Napoli, Cristiano Giuntoli, ha sempre dovuto far di conto e tra addizioni e sottrazioni si è sempre trovato bene. Si è sempre trovato bene soprattutto a seguire stradine poco battute dal grande traffico calcistico. Ha il piglio del cicloturista d’esperienza, quello che sa benissimo dove andare per pedalare tranquillo, quello che percorre certe strade non con la speranza che portino da qualche parte, ma con la certezza che portano da qualche parte, all’arrivo prestabilito.

 

Cristiano Giuntoli era un calciatore discreto, affidabile, buono per la serie C e la D, non un campione, ma uno capace di capire cosa andava fatto e di scegliere il momento giusto per farlo. Béla Guttmann la chiamava “efficacia della sensibilità analitica”. Il grande allenatore di Budapest che tra Újpest, San Paolo, Porto e Benfica rivoluzionò in vent’anni almeno un paio di volte il calcio – prima di essere rivoluzionato lui dall’Ajax di Rinus Michels – era uomo di letture filosofiche e intuizioni letterarie. E quello che lui definiva “efficacia della sensibilità analitica”, ossia la capacità di rapportarsi con il contesto per trovare le migliori soluzioni in una circostanza o in un ambiente, è qualcosa che calza a pennello a Cristiano Giuntoli. Se una cosa in tutti questi anni ha dimostrato è che questa “efficacia della sensibilità analitica” ce l’ha e in ampie dosi.

 

Cristiano Giuntoli dopo il ritiro dal campo ha studiato a lungo a Coverciano, ha cercato di imparare il più possibile allo Spezia, poi è passato ai fatti. Il Carpi gli ha dato fiducia, lui ha ricambiato cercando di capire di cosa l’allenatore aveva davvero bisogno, cercando i giocatori più adatti al progetto tattico, fregandosene di nome, fama e procura. Fidandosi ciecamente di chi aveva conquistato la sua fiducia e constatando sul campo, a bordo campo, come questa fosse ben riposta. Dalla stagione 2009-2010, dalla D alla promozione in A. Sei anni di successi e spese contenute, di giocatori passati dal non essere nessuno a essere abili e arruolabili tra A e B.

 

Aurelio De Laurentiis lo portò sotto il Vesuvio. Disegnò un Napoli a immagine di Maurizio Sarri prima, poi di Rafa Benítez, Carlo Ancelotti, fino alla perfezione raggiunta con Luciano Spalletti. Una squadra costruita in due anni con un esborso totale di  dieci milioni di euro (considerando il saldo tra acquisti e cessioni). Cifra che il Monza sborserà per il riscatto di Petagna.

 

La scorsa stagione Cristiano Giuntoli e Luciano Spalletti parlarono a lungo tra il finire di giugno e l’inizio di luglio. Di tattica, di schemi, di gioco. Poco di giocatori. Giuntoli gli portò Matteo Politano, Frank Anguissa, Axel Tuanzebe e Juan Jesus. Si parlò di mercato fallimentare. Il Napoli finì terzo.

 

Quest’estate accadde lo stesso. Alle partenze di Ciro Mertens e Lorenzo Insigne si aggiunsero quelle di Kalidou Koulibaly e Fabián Ruiz. Arrivò una sfilza di giocatori dai nomi strani, tipo Min-jae Kim e Khvicha Kvaratskhelia, dai trascorsi ondivaghi Tanguy Ndombélé e Giovanni Simeone, di giovani promesse a cui serviva tempo, Giacomo Raspadori. Si riparlò di mercato fallimentare. E’ andata diversamente.

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