Foto Ap, via LaPresse

Quello che Pelé non ha lasciato

Giovanni Battistuzzi

A sei mesi dalla morte di O Rey, il figlio parla dei debiti lasciati dal padre. Una storia vecchia quanto il calcio quella dei campioni scialacquatori

Pelé è morto il 29 dicembre del 2022. Pelé vive, perché certi campioni hanno la capacità di superare la normale durata terrena, farsi ricordo sempre capace del dono dell’attualità, nonostante il calcio nel quale giocava lui sia ormai diversissimo da quello attuale, nonostante altri campioni lo abbiano seguito, forse anche superato, con la differenza al contrario di lui sono stati video e immagini e non prevalentemente racconto, tradizione orale. I campioni di uno sport li si giudicano dal campo, poi però entra, loro malgrado, nostro malgrado, la vita di tutti i giorni. E con essa vittorie e fallimenti che con lo sport non hanno nulla a che fare. Si dice sempre che ciò che fa un grande atleta fuori dal campo di gioco, qualunque esso sia, non dovrebbe contare, poi si finisce sempre per metterci il naso, soprattutto il becco. La curiosità, specie quella un po’ morbosa, la si prova sempre a respingere con sdegno, salvo poi non resistere al fascino del pettegolezzo, della notizia di contorno.

Pelé ha vinto tanto, dai tre Mondiali in giù, ha segnato tantissimo, è stato il primo calciatore a essere un idolo anche in America. E in quegli anni, era la metà dei Settanta, del calcio – per loro soccer, il football è altra cosa oltre oceano – fregava poco o niente. Del calcio no, ma di Pelé sì, perché era un po’ un Muhammad Alì, solo che non dava pugni, ma prendeva a calci un pallone e nel farlo era il migliore al mondo, anche se non più di primo pelo. Il suo nome divenne marchio, le sue ospitate tivù erano ricercatissime e quindi costose. “In pochi anni si potrà comprare i Cosmos e lo vedremo su Forbes”, disse scherzando ma non troppo, Steve Ross, futuro amministratore delegato del colosso editoriale Warner Communications e all’epoca dirigente di riferimento dei New York Cosmos, la squadra che lo aveva ingaggiato. C’era un altro giro d’affari rispetto a quello attuale, ma anche all’epoca il calcio, almeno in America, garantiva lauti guadagni.

Non andò così. Pelé creò il suo marchio davvero, investì, ma i Cosmos non se li comprò e non finì su Forbes. Della fortuna che poteva esserci pare che non ci sia più niente. Sono rimasti i debiti, nonostante un capitale di almeno 4,4 milioni di euro. “Era molto triste, non aveva attorno a sé le persone né le linee guida ideali ed ha preso decisioni sbagliate ma ora non ha senso pentirsene, anche se è deplorevole. Ora il mio obiettivo è risolvere il problema”, ha detto a Espn Brasile il figlio Edinho.

Storia antica quella dei campioni del pallone che scialacquano tutto. Antica quanto il calcio. Fred Dewhurst fu uno degli Invincibles, la banda di giocatori imbattibili che con la maglia del Preston North End F.C. vinsero le prime due edizioni della First Division inglese. Era un attaccante raffinato e dal tiro precisissimo, segnò 450 gol il 560 partite. Veniva da una famiglia molto ricca, era un appassionato di canoa e baseball, oltre che di donne, poker e liquori. Mandò la sua famiglia quasi sul lastrico a forza di puntate esorbitanti e feste nella tenuta di campagna a base di cognac, champagne e sigari che si faceva portare direttamente dal centro America. Morì a 31 anni in un ospizio dilaniato dall’alcol e diseredato dalla famiglia.

Fu forse il primo. Dopo di lui una lunga serie.

Quella di Fred Dewhurst è una storia che anticipa di più oltre ottanta anni quella di Garrincha, fenomenale ala del Brasile campione del mondo del 1958 e 1962, quello di Pelé. Garrincha, come l’attaccante scozzese, finì male alcolizzato e senza un soldo a ripensare al passato e a quello che aveva perso.

Pelé nei meandri della miseria non c’è mai finito, ha creato un impero, ha trovato il modo di distruggerlo, anche senza la complicità di dipendenze, assuefazioni e cose così. Come Diego Armando Maradona, ma diversamente da Diego Armando Maradona. Diversi, a tratti opposti, uniti da quel legame con poco senso e tante chiacchiere, che poi è scontro di visioni della vita oltre che del calcio. O Rei o il Pibe? Una domanda che ha trovato dimora in conversazioni per decine e decine di anni, a cui tanti hanno provato a dare una risposta, anche se risposta univoca non c’era.

Dopo la morte di Diego Armando Maradona la sua ultima dimora è diventata meta di pellegrinaggi. La villa di Pelé sulla spiaggia di Pernambuco, a Guarujá, sul litorale di San Paolo, lo diventerà probabilmente a breve. Sull’abitazione grava un debito di circa mezzo milione di reais, quasi 100mila euro. Soprattutto è in uno stato di abbandono quasi totale. O Rei si era ritirato in due stanze, l’idea di Edinho è quella di ristrutturarla, musealizzarla, farla diventare una sorta di parco divertimenti calcistico. L’alternativa è vendere tutti i trofei e cimeli rimasti. Alcuni Pelé li aveva già ceduti.

Qualcosa di simile l’aveva vissuto Bjorn Borg. Pure lui campione, pure lui amato, idolatrato, ricco e famoso. La sua caduta arrivò prima di quella di Pelé. “Era più facile giocare a tennis e battere Connors o McEnroe o Nastase, che imparare a gestirsi. Ho avuto il grande dono del talento con le racchette, probabilmente avevo solo quello”. È molte volte un’impresa sapere fare impresa sulle proprie imprese.

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