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Un nome, una magia. Pelé che non voleva essere Pelé

Gino Cervi

A Edson Arantes do Nascimento quel nomignolo non è mai piaciuto. Quel soprannome che non vuole dire niente in portoghese da sessantacinque anni a questa parte, nel calcio vuol dire tutto

Forse non sarebbe cambiato niente se tutti l’avessero chiamato Arantes, secondo il cognome della madre, Maria Celeste; o do Nascimento, il patronimico del padre, João Ramos, che peraltro tutti conoscevano come Dondinho. O se, come più volte ebbe modo di dire lui stesso, un po’ risentito, fosse diventato famoso col suo primo nome, Edson, errore di trascrizione anagrafica per Edison, l’inventore americano Thomas Alva Edison, 1.093 brevetti registrati in carriera, pur venendo ricordato soprattutto per uno solo di essi, benché di controversa attribuzione: la lampadina. Gli sarebbe forse piaciuto di più se l’avessero incoronato O Rei do Futebol, “Il Re del Football”, chiamandolo Dico, il nomignolo con cui da piccolo veniva chiamato in famiglia. Ma forse non sarebbe forse cambiato niente ed Edson Arantes do Nascimento, 1.281 gol in 1.363 partite in carriera – secondo quanto gli riconosce la stessa Fifa: molti più dei brevetti di Edison… – sarebbe stato lo stesso uno dei più forti calciatori di tutti i tempi, forse il più forte, anche senza chiamarsi Pelé.

 

Ma a Edson Arantes do Nascimento il nome Pelé non è mai piaciuto. Quando da ragazzo lo chiamavano così si arrabbiava moltissimo. “Ma come, porto il nome di un grande padre della modernità e mi chiamano con un nome da bambino scemo!”. Eppure Pelé è stato un nome perfetto per uno che era destinato a giocare a pallone e a farlo meglio di chiunque altro.

 

Come in ogni nuova nominazione, nella parola Pelé c’è qualcosa di magico, quasi come nella Macondo di Cent’anni di solitudine dove il mondo era talmente nuovo che molte cose era possibile nominarle soltanto indicandole con il dito. Che ci sia della magia in quel nome lo racconta lo stesso Edson nella sua autobiografia. Quando aveva tre o quattro anni, Edson veniva portato dal padre – che aveva dovuto smettere molto giovane di giocare a calcio per un brutto infortunio al ginocchio – ad assistere alle partite dei suoi ex compagni del Vasco de São Lourenço. Tra questi, in porta, giocava un tale che si chiamava Bilé. Quando faceva una bella parata, Edson sentiva le esultanze dei tifosi: “Bravo Bilé, grande Bilé!”. Bastò quello perché Bilé diventasse l’idolo del piccolo Edson che un giorno dichiarò che da grande anche lui avrebbe fatto il portiere come Bilé.

 

Sarà stato l’accento mineiro – Edson era nato a Três Corações, città dello Stato di Minas Gerais – o una storpiatura da lingua bambinesca, ma Bilé divenne prima Pilé e poi Pelé. Il piccolo Edson, che voleva essere Bilé, suo malgrado diventò Pelé e quel soprannome gli rimase appiccicato per tutta la vita. A parte questo, il realismo magico sta nell’origine del soprannome di quel quasi anonimo portiere Vasco de São Lourenço. Che si chiamava José Lino ed era figlio di una vedova, Dona Maria Rosalina, che anni prima era stata molto preoccupata per lui. José Lino aveva due anni e ancora non spiccicava parola. Era muto. Dona Maria Rosalina decise di chiedere aiuto alle benzedeiras, le donne-sciamane che sapevano risolvere malattie e sventure entrando in contatto con gli spiriti. Le guaritrici si misero al lavoro e inscenarono intorno al piccolo José Lino un rito che prevedeva una litania di misteriose formule magiche. Tra queste una diceva: "Bili, bilu, tetéia!". Non bastò un incontro e nemmeno due. José Lino non parlava. Ma anche Dona Maria Rosalina non demordeva. Finché, dopo settimane di incontri, José Lino, che forse non ne poteva più di vedersi intorno tutta quella incomprensibile liturgia, pronunciò una parola: "Bilé!". Che da quel giorno divenne anche il suo nuovo nome. Senza sapere che, involontariamente, quella parola sarebbe diventata una delle più pronunciate al mondo grazie al piccolo Edson che, vent’anni dopo, si mise a fare il tifo per lui.

 

Credo che per diventare grandi campioni sia necessario essere fortunati anche coi nomi che si portano. La parola Cruijff aveva il suono di un aereo bulino che dava forma a una materia mai vista prima. La parola Maradona racchiudeva, come in un piccolo tabernacolo, la tenace fede nel miracolo che prima o poi diventa realtà.

 

Pelé invece è una parola che in portoghese non significa nulla. Ma da sessantacinque a questa parte, ovvero da quando Edson Arantes do Nascimento si è acceso come la lampadina di Edison ed è diventato semplicemente Pelé, sub specie aeternitatis Eupallae, vuol dire tutto: un tiro, una finta, uno scatto, un palleggio, un assist, un colpo di testa, una lieve ma imprendibile corsa sul prato verde dello stadio dei nostri sogni bambini.

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