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La vittoria del Napoli, uno scudetto contro i luoghi comuni

Claudio Cerasa

Un allenatore che rinuncia alle bandiere. Un presidente che sfida  le curve. Una società che scommette più sul profitto che sul romanticismo. La vittoria del Napoli è una dura lezione contro il correttismo calcistico    

Uno scudetto da impazzire, un Napoli da amare, una stagione da incorniciare e un titolo che, come sapete, in città mancava dal 1990, dai tempi di Diego Armando Maradona, dai tempi del Napoli di Giuliani, Ferrara, Bigliardi, Baroni, Alemao, Corradini, Fusi, De Napoli, Mauro, Careca e Carnevale. Sono passati trentatré anni e il Napoli oggi è qui di nuovo a far godere i suoi tifosi, a riempire lo scudetto di colori e a riportare per la prima volta dopo oltre vent’anni, dai tempi degli scudetti di Lazio e Roma (2000 e 2001), il titolo lontano da Milano e da Torino.

 

La vittoria del Napoli offrirà molti spunti per grandi romanzi, per grandi racconti, per grandi sceneggiature, non a caso Paolo Sorrentino in questi giorni ha scelto di trasferirsi a Napoli, ma la vittoria del Napoli, per tutti coloro che cercano con ossessiva insistenza spunti di riflessione controintuitivi per leggere la realtà, è anche una grande lezione contro alcuni luoghi comuni del calcio, che grazie alla vittoria del Napoli di Luciano Spalletti almeno per una stagione sono stati spazzati via più o meno come molte delle difese delle squadre affrontate quest’anno dal Napoli. Si diceva che no, per carità, nel calcio moderno, nel calcio senza cuore, nel calcio che ha perso i suoi valori, nel calcio che ha perso i suoi riferimenti tradizionali non si può andare lontano senza le bandiere, senza avere qualcuno che riesca, con fedeltà, con coerenza, a rappresentare gli ideali di una squadra. E invece no. E invece il Napoli, all’inizio della stagione, ha venduto tutte le sue bandiere, ha fatto andare via una bandiera come Lorenzo Insigne, una bandiera come Dries Mertens, una bandiera come Kalidou Koulibaly, una semi bandiera come Fabián Ruiz e ha vinto lo scudetto. Si diceva anche che un buon presidente di calcio tra un campione desideroso di comandare nello spogliatoio e un allenatore desideroso di primeggiare nello spogliatoio alla fine deve sempre assecondare i campioni, per evitare di farli andare via, e invece De Laurentiis, come avrebbe sognato forse Luciano Spalletti ai tempi della Roma di Francesco Totti, alla fine ha scommesso più sul suo allenatore che sulle sue bandiere e i risultati sono quelli che sappiamo.

 

Si diceva, altro luogo comune, che un presidente di una squadra di calcio per essere vincente deve avere la curva dalla propria parte, sempre, e invece la stagione del Napoli ha dimostrato che gli scudetti si possono vincere portando la curva dalla propria parte anche quando i tifosi sono neri di rabbia, come lo erano i tifosi del Napoli all’inizio della stagione dopo aver perso le proprie bandiere e come lo erano i tifosi del Napoli alla fine della stagione dopo aver assaggiato il costo al rialzo dei biglietti dello stadio deciso da De Laurentiis. Si diceva, poi, che no, non si può vincere lontano da Milano e da Torino, perché, come da vecchio mantra del complottismo modello Luigi De Magistris Associati, alla fine il calcio, signora mia, è un affare tra i poteri forti e quando sei un potere piccolo il sistema è fatto apposta per escludere gli underdog. Si diceva ancora che vincere un campionato senza stadi moderni sarebbe stata una missione quasi impossibile, perché gli stadi vecchi non attirano il tifo, non attirano il fatturato, non attirano l’indotto, e invece, pur in uno stadio decrepito, costruito con molte difficoltà ai tempi dei Mondiali del 1990, il Napoli ce l’ha fatta. Si diceva poi che no, quando si cambia tutta una squadra serve tempo per far crescere i talenti, serve tempo per trovare un amalgama, neanche le squadre di calcio fossero il Pd, e che non si può vincere nulla puntando su perfetti sconosciuti e invece la storia di Kim (pagato 20 milioni di euro), la storia di Kvaratskhelia (pagato 10 milioni di euro), la storia di Politano (riscattato per 19 milioni di euro) sono lì a dimostrare che i campionati si possono vincere non solo con le aste al rialzo del mercato estivo ma anche con l’intelligenza e la creatività dei talent scout (in termini di esposizione bancaria, secondo l’ultimo report dell’Uefa, datato febbraio 2023, l’Italia ha un’esposizione pari a 390 milioni di euro, la Juventus 223, la Roma 271, il Milan 71, il Napoli zero). Si diceva che non si può vincere uno scudetto con un bilancio in attivo, si diceva che non si può vincere uno scudetto senza uno stadio moderno, si diceva che non si può vincere nulla se giochi sempre con la stessa squadra, senza fare grandi rotazioni. Si diceva che chi parte forte in serie A alla fine crolla sempre alla distanza. Si diceva che non si può vincere uno scudetto se la piazza è troppo morbosamente attaccata alla squadra. Si diceva che non si può vincere nulla se un presidente pensa più agli affari che alla curva. Lo scudetto del Napoli è una goduria per i napoletani, e non solo per loro, ma lo è anche per tutti coloro che amano il calcio anche quando riesce a rompere il muro dei luoghi comuni. Auguri e viva gli underdog del calcio.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.