Foto di Alessando Bianchi per Ansa

Il Foglio sportivo

È da trent'anni che hanno legato le mani ai portieri. Com'era il calcio con il retropassaggio

Matteo Rivarola

Francesco Antonioli fu il primo a non poter prendere il pallone con le mani: “Cesare Maldini mi chiese di essere un uomo in più. Oggi si esagera a giocare con i piedi”

Barcellona, 24 luglio 1992, una “rivoluzione” calcistica. Si conclude, grazie a una regola introdotta dalla Fifa, l’epoca del pallone raccolto con le mani dal portiere su retropassaggio del compagno. Sono passati 30 anni. “Giocatela a Zoff”, gridava Bearzot dalla panchina per evitare il pressing verdeoro nel 1982. La cosiddetta “melina”. Una sorta di censura dello spettacolo che non ha impedito però di centrare una delle imprese più grandi di sempre del calcio italiano. Dieci anni più tardi arrivò la regola che avrebbe stravolto inconsapevolmente l’etica del gioco. Ritmo, pressing, strategia e quell’ostacolo in più per il portiere dettato dal veto di bloccare la palla con le mani dopo il passaggio volontario del difensore. “Fortunatamente ero buono con i piedi – racconta Francesco Antonioli al Foglio Sportivo – mi ricordo bene quel giorno. Era il 1992, giocavamo contro gli Usa nella prima gara delle Olimpiadi, abbiamo vinto 2-1. Sono stato il primo a sperimentare la nuova direttiva. Era un calcio diverso, Cesare Maldini mi chiese prima della partita di essere coinvolto anche nelle azioni di ripartenza dei miei compagni. Di velocizzare il gioco, di essere un uomo in più. A quei tempi le problematiche erano minori rispetto a quelle attuali, se ti arrivava il pallone e potevi giocarlo lo giocavi, in caso di pressing lo calciavi anche fuori dallo stadio e andava bene ugualmente”. Una norma introdotta per evitare eccessive perdite di tempo, che con il passare degli anni ha complicato e responsabilizzato ancor di più il ruolo dell’estremo difensore. “I portieri di oggi abusano del gioco con i piedi. Il calcio in televisione lo vedo anch’io, non troppo perché altrimenti mi annoia, però ci sono tante situazioni in cui il portiere molto spesso potrebbe non essere chiamato in causa eppure viene coinvolto in automatico. Oltretutto rischiando in determinate occasioni di regalare il pallone agli avversari. Per carità, io ho vinto due scudetti sapendo usare anche i piedi, però…”.

 

Il portiere, ruolo tutt’altro che banale. Posizione, riflessi, agilità e anche tattica. Non solo saper parare, ma costruire dal basso e spezzare la trama offensiva in caso di ripartenza avversaria, riducendo al minimo il margine di errore. “Se non sei tormentato dopo aver sbagliato un’uscita non sei un grande portiere. In quel momento, non importa quello che hai fatto in passato, perché sembra non avere futuro”, dichiarò Lev Yashin, in occasione della premiazione del Pallone d’oro. Era il 1963 e fu l’unico portiere della storia a ottenere l’ambito riconoscimento.

 

Francesco Antonioli, dopo oltre 800 partite da professionista, le ricorda bene le sensazioni che si provano a difendere la propria porta. Antagonista solitario, cosciente di un ruolo silente quanto decisivo. “Da sempre, quello del portiere è stato un ruolo che necessita di equilibrio e continuità per rendere al meglio. Oggi devi essere completo in tutto e pronto alla prima occasione. Complicato. Per un giocatore di movimento è più semplice, giochi mezz’ora tutto campo e partecipi al gioco attivamente. In porta ti capita di intervenire due volte in una partita e devi essere decisivo. Nei settori giovanili, per fortuna, si lavora anche sulla testa dei giocatori”. A livello fisico, il campionato italiano sembra sempre un passo indietro rispetto ai campionati esteri. Falso mito o realtà assodata? “Le preparazioni sono cambiate ovunque. Un tempo si correva e stop. Oggi il lavoro e i carichi sono differenti anche per i portieri, si curano diversi aspetti. Di sicuro in Premier si corre, guarda il Tottenham di Conte. I giocatori vomitano a fine allenamento. Poi non è detto sia la soluzione migliore. Ognuno ha la sua strategia, la stagione è lunga, lo staff tecnico in tal senso ha una grande responsabilità. Antonio lo conosco, è un perfezionista e fa lavorare parecchio le sue squadre”.

 

C’è un nome nel calcio di oggi che raccoglie l’identikit del portiere ideale? “Un grande talento è Meret, ottima struttura fisica e grande esplosività. Rappresenta a pieno il portiere moderno, considerata anche l’agilità tra i pali. Purtroppo fino a oggi non ha trovato una realtà che lo valorizzi quanto merita. Ha bisogno di continuità e non l’ha mai avuta nell’arco della sua carriera. Ha un grande futuro anche in ottica Nazionale, dove Mancini con i giovani sta facendo un ottimo lavoro”. Certo un bel passo falso, l’ennesima esclusione da un campionato del mondo, specie dopo il trionfo di Wembley. “C’è qualità e questo è l’importante. Ho letto una pioggia di critiche per l’esclusione al Mondiale, un fallimento per gli Azzurri, ma se analizziamo le partite alla fine siamo usciti per un rigore. Ci sta nel calcio, si vive di alti e bassi. Sono fiducioso, la scelta di proseguire con Mancini in panchina è stata quella giusta. Ci sorprenderà, anche perché quando l’Italia viene messa alle strette tira poi sempre fuori quel qualcosa in più, come le grandi squadre”.

 

Eppure lo stesso Mancini ha ammesso che a questa Nazionale manca ancora qualcosa sia nell’ultimo passaggio, che in fase realizzativa. Si è pentito di non aver convocato Mario Balotelli a novembre. “Non scherziamo, Balotelli ha buttato via una carriera. Ha toppato. Non discuto le qualità, anzi. Proprio per questo ti fa arrabbiare ancora di più. Dovessi ripartire da zero, gli preferirei altra gente”. Semplice, lineare e meritocratico il calcio di Francesco Antonioli, legato a quelle emozioni pure e sincere, che nonostante tante novità, forse un po’ ci manca.

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