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La Serie A è davvero irriformabile?

Andrea Trapani

Fuori dal campo di calcio, a determinare i risultati sono spesso le le disponibilità finanziarie assai diverse tra le varie leghe e, all’interno delle stesse, tra le squadre. Il caso Vlahovic e la volontà del presidente della Fiorentina Commisso di provare a cambiare (in parte) le cose

“Era impossibile dire di no a quella proposta, le società sono prigioniere di agenti e calciatori. Capiamo i sentimenti della gente, ma il calcio, per come è fatto oggi, tra bilanci e procuratori… davvero non potevamo fare diversamente”. Queste sono le parole del direttore sportivo della Fiorentina Daniele Pradè che ieri, ai margini della presentazione del nuovo numero 9 viola Arthur Cabral, ha parlato per la prima volta in pubblico della cessione di Vlahovic alla Juventus.

In realtà lo aveva fatto già il presidente Rocco Commisso in un lungo audio di 20 minuti che è entrato già nella storia dei podcast della società.

 

Un veloce riassunto. Il più grande affare del calciomercato invernale è stato realizzato tra due società che sono distanti tanto economicamente quanto sportivamente. Non c’è solo l’antipatia reciproca tra tifosi o presidenze, i numeri di Fiorentina e Juventus sono incomparabili. Lo ha ricordato Commisso, molto pragmaticamente, facendo notare che l’affare vale un anno di fatturato della Fiorentina, “come se fossero 400 milioni per la Juve”. Una frase che può piacere o meno visto che la tifoseria viola si è già divisa tra guelfi e ghibellini. Insomma, il re è nudo: fuori dal campo di calcio non ci sono solo i risultati sportivi ma soprattutto le disponibilità finanziarie assai diverse tra le varie leghe e, all’interno delle stesse, tra le squadre.

 

Un calcio irriformabile. O forse sì?

In alcuni campionati, negli ultimi decenni, lo scudetto è ormai in palio solo tra poche contendenti. Non serve ricordare la favola del Verona di Bagnoli per notare che, dopo i due exploit consecutivi delle romane, dal 2002 in Italia i vincitori arrivano solo dall’asse Torino-Milano. Non cambiano le cose in Spagna. A volte, spettacolare eccezione, è la Francia dove il problema di una società dominante è comunque ben presente. A questo punto una domanda sorge spontanea: questo calcio è riformabile?

A oggi, la risposta porterebbe a dire di no. Gli osservatori, da tempo, segnalano come si stia affermando una situazione dove, nascita di una superlega a parte, pochi club controllano ormai gran parte del business del pallone in tutta Europa. Ovvero il calcio più ricco. Tra chi ha provato a proporre un decalogo di nuove regole c’è proprio quella Fiorentina che però deve farsi i conti in tasca: “La Fiorentina di questi tempi ha 75 milioni di ricavi”, ha ricordato Commisso che vuole sì combattere ma non fare la fine di Don Chisciotte. “Noi abbiamo preso il 100 per cento da questo affare (Vlahovic, ndr). I soldi arriveranno nell’arco di tre anni fino a quota 80 milioni di euro. Così pensiamo al futuro. È impossibile competere con squadre che spendono così tanto e hanno un fatturato alto. Avendo questi ricavi, il proprietario di una società non può ogni anno mettere 40-50 milioni e perderli. A fine dicembre eravamo sotto di 314 milioni. Con il Viola Park siamo a 280 milioni spesi: 180 per comprare la Fiorentina e 110 per mettere i conti a posto”. Certo, non c’è niente di romantico nel leggere le cifre. La sostenibilità del calcio si fonda però proprio sui soldi. Come in tutti gli altri sport professionistici.

 

L’esempio Nba

Gli Stati Uniti del presidente viola sono lontani, culturalmente e geograficamente, non hanno retrocessioni e altre cose che non piacciono ai tifosi europei ma a livello di sostenibilità l’Nba ha un solo principio: l'equilibrio. La ripartizione dei ricavi deve essere garantita, per dirla in pochi termini economici, tra “big market” e “small market”, in modo da rendere competitive tutte le franchigie presenti. Con risultati sorprendenti. I Golden State Warriors sono passati dall'essere una franchigia storicamente perdente a una delle superpotenze del basket americano. Come funziona? Tutti i club destinano a un fondo comune una percentuale dei loro ricavi e ricevono 1/30 di questa somma. Chi mette di più riceve di meno e viceversa.

Una situazione per ora impensabile da esportare in Europa dove, al contrario, si hanno leghe nazionali in competizione tra di sé che, cosa impensabile in America, usano la leva fiscale per favorire i propri campionati. Insomma, la risposta alla nostra domanda ancora manca: la Super League forse non era la soluzione giusta, ma probabilmente non lo è nemmeno il sistema attuale.

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