Paolo Dal Pino saluta la Lega Serie A dei barricaderi
Il presidente lascia perché è il momento di lasciare. Le sue dimissioni sono un ultimo messaggio a un ambiente che l'ha visto e vissuto sempre come un semi-intruso: decidetevi. Il problema dello statuto (e della divisione dei soldi)
Che il suo futuro non fosse né nel calcio né, soprattutto, in Italia il mondo del pallone nostrano lo aveva intuito da parecchio. Paolo Dal Pino aveva altro in mente rispetto a continuare a fare il presidente della Lega di Serie A. Lo continuava a fare per senso di responsabilità, ché serviva risolvere un bel po' di problemi prima di dire addio, di salutare il calcio gestito. Del suo addio si vociferava già in autunno, poi a dicembre c'era chi lo dava per certo e imminente. Il Covid, la gestione calcistica della pandemia ha dilatato il tempo.
Il momento dell'addio non è casuale. Del Pino lascia perché è il momento di lasciare, quasi fosse un messaggio, l'ultimo a un ambiente che l'ha visto e vissuto sempre come un semi-intruso. Decidetevi. Ora non avete nemmeno l'ultimo alibi. La Lega di Serie A deve fare in fretta. Deve trovare un sostituto presto perché il 15 febbraio è vicino. Quel giorno scadrà l'ultimatum del presidente della Figc per l'approvazione del nuovo statuto, quello che prevede la maggioranza semplice (con la sola eccezione dei casi per cui la legge preveda invece quella qualificata, ad esempio l'elezione del nuovo presidente) per l'approvazione delle delibere in assemblea. Un cambiamento burocratico ben più importante di quello che sembra, perché mettere d'accordo 14 società per modificare le regole della Lega su temi importanti, ad esempio la gestione dei diritti televisivi o della presenza web della Lega, è molto più complesso che metterne d'accordo 11.
È attorno ai ricavi, o meglio alla divisione di quelli che la Serie A genera, che è montata la sfiducia di chi aveva puntato su Paolo Dal Pino per cambiare le cose.
Alla guida della Lega di Serie A era arrivato nel gennaio del 2020, dopo le dimissioni il 19 novembre dell'anno prima di Gaetano Miccichè e le seguenti dimissioni del commissario ad acta Mario Cicala. L'avevano proposto Milan e Roma, con il benestare non troppo convinto delle altre grandi. L'avevano eletto le piccole guidate dal presidente della Lazio Claudio Lotito, che aveva capito che serviva una persona abile a risolvere problemi per poter acquietare un pochino le acque di un calcio che si stava avvitando in uno scontro interno e che invece doveva pensare a incrementare guadagni. Serviva un manager e serviva uno che avesse una formazione aziendale e la capacità di attrarre investimenti. Lotito prima l'aveva applaudito, poi aveva iniziato a criticarlo perché, quello che faceva non era, a suo avviso, abbastanza. E soprattutto per i legami, cordiali e amichevoli con il presidente della Figc, Gabriele Gravina. Serviva unità tra Federazione e Lega per uscire nel miglior modo possibile dalla pandemia. Un ragionamento pratico e semplice, ma che a una parte dei presidenti della Serie A non piaceva. Federazione e Lega hanno interessi convergenti, ma non del tutto sovrapponibili. Da una parte si marcia per il calcio di tanti (non di tutti), dall'altra per l'elite del calcio italiano.
Claudio Lotito si sta guardando attorno, sta cercando di capire come arrivare ai 14 voti necessari per imporre alla Lega la sua visione del calcio, per mettere in minoranza i grandi club. È da anni che ci prova. È da anni, che per un motivo o per l'altro, non ce la fa. Ora Lotito deve fare in fretta, ha due settimane per trovare i voti necessari per far eleggere un suo uomo.