(foto LaPresse)

Dov'è finita la meglio gioventù italiana nella Juventus che vince sempre?

Giovanni Battistuzzi

I bianconeri conquistano il nono scudetto consecutivo. Rispetto a dieci anni fa è cambiato tutto. A Torino i migliori giovani azzurri o se ne sono andati via o giocano poco

Sono cambiate le maglie, non i colori. Sono cambiati i volti, non le espressioni. A essere cambiato è lo sfondo, quest’anno vuoto di pubblico a causa delle porte chiuse imposte dalla pandemia di Covid-19. 

 

La Juventus ha vinto oggi il nono scudetto di fila con due giornate d’anticipo e 83 punti, qualcosa in meno rispetto a quello a cui era abituata, abbastanza per non aver dovuto patire troppo nonostante qualche battuta a vuoto. Maurizio Sarri conclude la stagione italiana come gli era stato chiesto di fare in estate, con il titolo. Allo stesso modo di come erano riusciti a fare Antonio Conte e Massimiliano Allegri prima di lui. Per quella europea, si vedrà, c’è tempo. La volontà è la solita: alzare al cielo la Champions League, il trofeo che in questi nove anni di dominio italiano non è mai entrato in bacheca. 

 

Nove anni filati via lisci, senza mai patire davvero gli avversari. Merito, dicono i più, di un progetto perfetto, o quantomeno migliore degli altri, di una macchina che non ha mai sbagliato, o che se l’ha fatto, ha saputo correggersi. 

 

Eppure, questi nove anni di vittorie hanno segnato il progressivo fallimento dell’idea originaria bianconera. Andrea Agnelli, nell’estate del 2011, la prima con Antonio Conte in panchina e l’ultima senza il tricolore cucito sulla maglia, aveva sintetizzato in poche parole ciò che sarebbe stato il futuro: “La Juventus ha vinto e vuole continuare a farlo. Ci rafforzeremo puntando su grandi giocatori, certo, che impreziosiranno un nucleo che raggrupperà in bianconero tutta la meglio gioventù italiana”. In sostanza: ingaggiare subito i migliori prospetti nazionali. E questo per tre motivi. Il primo è economico, comprare a poco ciò che, in caso, si può vendere a tanto; il secondo è “di spogliatoio”, ossia creare una base italiana, quindi coesa, alla squadra; il terzo è di opportunità, indebolire, o almeno evitare di rafforzare, le avversarie. 

 

Un gran lavoro di scouting, sottolineò l’allora direttore generale della Juventus, Giuseppe Marotta, che “ci permetterà di non farci scappare i grandi talenti italiani”. Perché, e dalle parti di Torino ne erano molto convinti, “difficilmente una squadra vince senza una importante ossatura da nazionale”, sottolineò Andrea Agnelli. 

 

In pochi anni vennero messi sotto contratto Nicola Leali, Manolo Gabbiadini, Alberto Masi, Domenico Berardi, Simone Zaza, Stefano Sturaro, Daniele Rugani, Alberto Cerri, Rolando Mandragora, Riccardo Orsolini, Mattia Caldara, Federico Bernardeschi. All’epoca del loro acquisto, il meglio che il calcio italiano poteva offrire (al quale si aggiungevano poi decine di altri giovani inseriti tra le file delle giovanili e poi mandati a giocare in prestito qua e là). In pratica un’assicurazione sulla vita e sul futuro, almeno a sentire radio e televisioni, a leggere giornali e blog. 

 

La meglio gioventù italiana della Juventus doveva affiancarsi alla vecchia guardia, quei Buffon, Chiellini, Barzagli, Bonucci che sono stati intoccabili per anni, imparare da loro e vincere ogni cosa. Non è andata così. Almeno per la meglio gioventù italiana. Perché la Juventus il modo di vincere l’ha trovato lo stesso. 

 

In questa stagione, oltre ai vecchietti da Nazionale, del gruppo di presunti campioni azzurri erano rimasti in due: Rugani non ha quasi mai giocato, Bernardeschi non l’ha quasi mai fatto bene. Tutti gli altri si sono sparsi in provincia, quasi tutti interpretando ruoli da protagonista, nessuno però in grandi squadre. 

 

Sul Foglio sportivo, il procuratore Giuseppe Bozzo spiegò ad Alessandro Rimi che “prima dell’arrivo di CR7 i bianconeri si preoccupavano di indebolire le avversarie, tutte le volte che queste stavano finalmente per raggiungerli”. Molti degli acquisti di questi giovani infatti sono stati fatti proprio quando questi erano nel mirino di società avversarie. Operazioni di mercato figlie di trattative veloci e risolute. In sintesi: non trattiamo il franco, siamo interessati al ragazzo e disposti a lasciarlo da voi un po’. 

 

Lo stesso sistema utilizzato anche per Paul Pogba, Paulo Dybala, Rodrigo Bentancur e Merih Demiral. Ma in questo caso il gioco ha funzionato. “Perché sono rimasti a Torino e a Torino hanno trovato spazio”, spiega Alvise Olivieri, per quarant’anni osservatore tra Venezia, Vicenza, Milan e Atalanta. “Prendere tanti bravi giovani è una cosa buona. Per un club e per il calcio nazionale”. Eppure non basta, “perché serve tenerli in squadra. Non è necessario lanciarli subito da titolari, ma tenerli nel gruppo invece è l’unico modo per non sprecare il loro talento”. 

 

Chi nel gruppo è rimasto però non è riuscito a imporsi: “E questo è il punto dolente, ma solo per la Nazionale. Siamo in un calcio globalizzato dove sono globali gli interessi. Ormai la quasi totalità dei giocatori parla quasi perfettamente almeno due lingue. L’idea del blocco nazionale è una fesseria, o meglio non è più decisivo”, sottolinea Olivieri. “Non è vero però che i nostri non siano bravi. Abbiamo ragazzi dal grandissimo avvenire. Il problema è la selezione. Ci sono mezzi calciatori che per cinque finte che fanno sono elevati a futuri campioni e giocatori solidi che rimangono in provincia una vita. Per fare una squadra vincente serve poco: un campione, tre o quattro grandi giocatori e un gruppo di gente che sa cosa deve fare. I dribbling inutili li dovrebbero vietare nelle scuole calcio. Ma è una battaglia persa. Basta vedere i giovani che fanno rapidamente carriera per capirlo”, conclude. 

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