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il foglio sportivo

“Quando la nostra Nazionale erano due”. Parlano Thomas Doll e Josefa Idem

Giorgio Burreddu

Il muro di Berlino e le due Germanie. Storie di sport a cavallo di due nazioni divise

“Il giorno che venne giù eravamo in un centro sportivo, a Lipsia. Preparavamo la partita di qualificazione a Italia ’90 contro l’Austria. Eravamo ancora la Nazionale dell’Est. Ci stringemmo tutti davanti alla tv, il Muro cadeva e noi ci guardavamo, capivamo cosa stava succedendo, e poi telefonammo alle nostre famiglie, io chiamai la mia”. Quando ripensa a quell’attimo, Thomas Doll cambia voce. Oggi il sole di Cipro gli illumina gli occhi e il cuore, il suo è un respiro lento e felice: chi è stato prigioniero di qualcosa capisce meglio il valore della libertà.

 

Doll ha 53 anni, allena l’Apoel, “qui è bellissimo”. Giocò in Serie A, alla Lazio arrivò nel 1991. Doll fu però anche uno dei testimoni di quell’esistenza lugubre, ansiogena, vissuta dietro al Muro. “La prima volta lo vidi a 19 anni – racconta al Foglio Sportivo – per quelli della mia generazione c’era sempre stato, era strano ma normale. Giocavamo a pallone per strada e la mia mamma mi doveva chiamare sempre tre volte prima che io rientrassi. Del Muro non ho mai avuto paura, sono sempre stato un po’ ribelle”. Le settimane prima che il mostro di calce, mattoni e filo spinato venisse giù, Doll se le ricorda bene: le aveva passate a Berlino, era lì che giocava. “Ricordo quelli che andavano per strada a dimostrare, per me erano tutti eroi. Non sapevi mai cosa poteva accadere, c’erano la polizia e le armi, era bello vedere la gente che si alzava, che andava per le strade, che voleva un’altra vita. Negli ultimi mesi la gente andava in chiesa, le chiese erano piene. E poi una volta, con altri compagni di squadra ci trovammo dentro a una manifestazione. Io mi tirai il cappellino in testa, guardavo: era bello vedere le facce della gente”. Per quelli come Doll la vita era diversa, il calcio era la vera misura del mondo, dell’essere liberi, “viaggiamo tanto, eravamo un po’ privilegiati”. Ma la paura c’era lo stesso. Christa, sua mamma, lavorava come segretaria. Papà Klaus aveva invece un ruolo politico. “La mia paura era per loro. Un Natale arrivò un pacchetto, dentro c’era un po’ di cioccolata, dei chewing-gum. Per questo papà perse il lavoro. Io volevo solo giocare a calcio, fare la mia vita. Mamma aveva dei parenti dell’Ovest, una volta vennero a trovarci e ricordo lo stress, la paura, paura che potessero dire qualcosa, paura di quello che potevano vedere e raccontare. Come in un film”.

 

Chi stava dall’altra parte il Muro lo viveva tra leggende e incredulità. Prima di diventare una delle più grandi campionesse azzurre della canoa, Josefa Idem gareggiava per l’Ovest. A 16 anni andò a fare i Mondiali Junior, “e c’era la curiosità di vedere com’erano questi atleti dell’Est, se erano umani o supereroi, si diceva che le loro barche andassero da sole, che fossero fatte con materiali incredibili, innovativi, e ricordo che cominciammo a fare questi incontri segreti coi ragazzi dell’Est, raccontavano a noi la loro vita e noi a loro la nostra”. Quando cadde il Muro, Sefi aveva 25 anni, mesi dopo andò a provare quelle imbarcazioni, “rimasi delusissima: erano pesanti, lente, ci voleva tutta la loro forza per farle andare. Si è sempre parlato del doping, ma c’erano anche atleti straordinari”. Josefa ne incontrò molti, per tanti di loro la storia non cominciò mai, rimase sospesa: “C’era una ragazza, Betina, fortissima, aveva una carriera incredibile davanti a sé. La videro andare a prendere una birra con un canadese e la fecero smettere. Sparì. La storia me l’ha raccontata lei anni dopo”. Altre resteranno chiuse dietro a quel Muro.

 

Di nuovo Doll: “Un amico, con cui avevo giocato da ragazzo, lo fermarono, lo fecero smettere di giocare. Gli dissero che aveva un problema al cuore. Diventato grande andò a farsi tutti gli esami: era sano, in salute. Anni dopo è venuto fuori che qualcuno della sua famiglia aveva contatti con l’Ovest”. È sempre la vita, il suo soffio esistenziale, a mettere a posto le cose. “Mia figlia Denise – dice Doll – è nata nell’agosto del 1989, qualche mese prima della caduta del Muro. Ha studiato fotografia, fa la freelance nella moda. Le ho raccontato tutto, lei doveva sapere. Le nuove generazioni hanno capito che la vita che avevamo noi era molto difficile: se vieni su in una dittatura non puoi dire cosa pensi, devi essere sempre attento, vivi sempre con questo stress dentro, hai paura di sbagliare qualsiasi cosa, di finire anche in prigione. Lo so, viviamo in tempi complicati, ci sono diverse religioni, idee. Ma i muri non servono a niente, tolgono comunicazione, aria, vita”.

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