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il foglio sportivo – storie di storie

Che cos'è un derby

Mauro Berruto

Torino-Juventus e gli altri. Quando il calcio divide una città

Ci sono molte teorie riguardanti l’origine della parola derby, ormai diventata parte del nostro vocabolario quotidiano. Una di queste risale al Royal Shrovetide Football Match, un gioco di origine medievale che si disputa, da secoli, nei giorni del Carnevale. Il campo da gioco è una città intera: quella di Ashbourne, nel Derbyshire, Inghilterra. La leggenda vuole che l’idea del gioco derivi dal lancio di una testa mozzata sulla folla durante una pubblica esecuzione. Le regole sono semplice: due squadre, Up’ards e Down’ards, a seconda che tu sia nato a nord o a sud del fiume Henmore. Due porte, piramidi di mattoni con al centro una pietra circolare, che distano fra di loro poco meno di 5 km. Si segna quando un giocatore riesce a toccare con la palla, per tre volte, la porta avversaria. Si incomincia alle 14.00 del martedì grasso, si finisce alle 22.00 del mercoledì delle ceneri. Immaginate un gigantesco pacchetto di mischia come nel rugby, centinaia di persone che si logorano in una specie di guerra di trincea. Strade, prati, fiume, pioggia, fango. Non importa dove: l’importante è avanzare, centimetro dopo centimetro. Le regole ufficiali sono tre: non si possono uccidere i propri avversari, non si può nascondere il pallone in una borsa o trasportarlo usando veicoli a motore, non si può entrare nel cimitero, nelle chiese e nel giardino pubblico della memoria. Tutto il resto è lecito e segnare è un onore pazzesco, si passa letteralmente alla storia. Che tu sia nato a nord o a sud del fiume, hai bisogno del tuo avversario per sentirti parte di qualcosa di grande. Nessuna maglia divide i partecipanti: ci si riconosce perché in fondo, si è una comunità. Se vi siete appassionati alla vicenda, fate arrivare dall’Inghilterra il libro di Lindsey Porter, Shrovetide Football and the Ashbourne Game (Landmark Publishing Ltd, 2002).

 

Il calcio divide in due anche le nostre città, come succederà oggi a Torino, giorno del derby. Ci sono derby famosissimi nel mondo, ma il più antico, l’Old Firm, si gioca in Scozia, a Glasgow. Lo giocano i Rangers contro i biancoverdi del Celtic. I Rangers furono fondati nel 1872, da quattro amanti del gioco del football che decisero quel nome in omaggio a una squadra di rugby inglese. Il Celtic da Andrew Kerins, un religioso irlandese, con un nobile scopo: in un freddo novembre del 1887 fece passare una circolare scritta a mano fra i bisognosi del quartiere. C’era scritto: “Sarà formata una squadra di calcio per l’allestimento delle tavole imbandite per i bambini e i disoccupati”. Diciotto parole che ancora oggi sono nello statuto del club. Il derby di Glasgow, mette in campo una rivalità fatta di sport, politica e religione: seppur con toni più moderati che in passato, i Celtic restano i rappresentanti della parte cattolica, nazionalista e independentista, i Rangers della parte protestante, socialista e unionista. Il 2 gennaio del 1971 si giocò un Old Firm tragicamente passato alla storia: 0 a 0 fino all’89esimo, quando il Celtic segnò un goal. Molti tifosi abbandonarono le tribune ferocemente delusi, ma negli ultimi secondi della partita Colin Stain, attaccante dei Rangers, siglò il gol del pareggio. Attirati dalle urla di gioia come falene dalla luce, molti tornarono precipitosamente sui propri passi, creando una calca che causò la morte per asfissia di 66 vite umane. Alle radici di questa rivalità ci è andato, fra sport e sociologia, Andrea Dimasi, Old Firm. La battaglia di Glasgow (Urbone publishing, 2016).

 

Lo sport ci insegna che senza gli altri non esisterebbe alcun noi. Basta il buon senso per riconoscere che la nostra identità, per poter esistere, deve nutrirsi di alterità. Proprio questo buon senso sia l’augurio per derby (su qualunque campo da gioco) improntati alla tolleranza e al rispetto.

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