Andrea Belotti (foto LaPresse)

Il ritorno di capitan Belotti

Leo Lombardi

Nonostante le difficoltà e le critiche Mazzarri ha sempre tenuto l'attaccante al centro del suo progetto. E ora il Torino, anche grazie ai suoi gol ritrovati, sogna un posto in Champions 

Sembravano averlo schiacciato, quei 100 milioni. Era la cifra che Urbano Cairo aveva fatto inserire come clausola per valorizzare Andrea Belotti fuori dai confini italiani, poiché vale unicamente all'estero. Una mossa spesso efficace visto che Florentino Perez, uno che a volte porta gente al Real Madrid in base al prezzo e non all'effettivo valore, avevo chiesto informazioni su quell'attaccante a lui sconosciuto. Questo accadeva nel dicembre 2016, giorno del rinnovo del contratto fino al 2021, quando il mondo era ai piedi di Belotti e viceversa. Il centravanti era arrivato al Torino nel 2015 e la stagione era sembrata quella della definitiva consacrazione. I gol arrivavano senza fatica e la Nazionale era parso l'approdo naturale, per un'annata conclusa a quota 26, miglior marcatore italiano. Poi l'orribile 2016-17, iniziato con la figuraccia azzurra a Madrid contro la Spagna (un umiliante 3-0 che ci aveva precluso la strada principale al Mondiale russo, in quanto alla scorciatoia ci avrebbe pensato la Svezia) e proseguito sottotono per Belotti.

 

Colpa di quei 100 milioni, sottolineavano i maligni. Come a dire: o ne ha paura o si è montato la testa. Una verità buona per i titoli facili e per i tifosi pronti a bersi tutto. In realtà, nella vita di un giocatore, ci stanno momenti così. Periodi storti in cui i malanni recitano la loro parte, la sfortuna contribuisce e le gestioni tecniche zoppicanti fanno il testo. Da 26 le reti scendono a 10, cifra apprezzabile ma che non può salvare, neppure se sul campo ti danni dal primo all'ultimo minuto. Un impegno che cresce in maniera esponenziale quando sei il capitano del Torino, e cui Belotti non si sottrae. Anzi, mettendoci sempre qualcosa in più. Ma in tali momenti ciò che prima veniva perdonato, ora diventa l'anticamera del sospetto della normalità. Non si pensa più all'attaccante come a uno che possa fare la differenza, lo si vede piuttosto come uno dei tanti passati in maglia granata: generoso, ma non decisivo, come invece avevano saputo essere in pochissimi eletti.

 

  

La bravura di Belotti è stata quella di non piangersi addosso. Non lo aveva fatto quando l'Atalanta lo aveva scartato da ragazzino, quando il talent scout Mino Favini aveva commesso uno dei suoi pochi errori in una vita trascorsa a individuare gioielli su cui lavorare. Era ripartito dalla provincia più provincia, dall'AlbinoLeffe, per costruirsi una carriera, e c'era riuscito. Solleticando l'attenzione di Maurizio Zamparini, uno che avrà divorato allenatori ma che è sempre stato innamorato del talento, e convincendo il Torino a investire su di lui. Un lavoro che ha pagato nuovamente con l'arrivo di Walter Mazzarri in panchina, uno sempre accusato di pensare soltanto a difendersi: parole spendibili da chi ha dimenticato che cosa fosse il suo Napoli, quello in cui Edinson Cavani (un altro passato da Palermo) vinceva nel 2013 la classifica marcatori con 29 gol. Dopo aver preso la squadra in corsa, in estate Mazzarri ha potuto modellarla secondo le proprie idee. E ha sempre posto Belotti al centro del progetto, anche dopo l'arrivo di Simone Zaza, anche dopo le critiche di chi riteneva l'attaccante non più all'altezza del suo recente passato.

 

Una convinzione che ha pagato perché se il Torino, dopo un paio di passi falsi, è diventata la squadra rivelazione nel 2019, lo deve a un gruppo compatto e ad alcuni singoli da cui non prescindere. Come Salvatore Sirigu tra i pali, arrivato con dubbi che anch'egli non meritava, e come Belotti là davanti. L'impegno è rimasto quello che i tifosi granata apprezzano sempre, però sono tornati pure i gol: 13, con il rigore che ha aperto la vittoria sul Milan da aggancio in classifica. Un Torino che sogna un'Europa che pareva follia in estate: non quella già conosciuta poche stagioni fa, bensì quella più importante. Quella che non non frequenta dall'autunno 1976, dopo aver vinto l'ultimo scudetto. Un Torino che si può permettere di affrontare la settimana più importante (il derby venerdì, settanta anni di ricordo del Grande Torino morto a Superga il giorno dopo) con una fiducia che non si riscontrava da tempo. E con Belotti nuovamente capitano coraggioso.

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