Noi siamo il Toro

Piero Vietti

Ancora una, poi basta. Oggi il Torino gioca l’ultima della stagione (serie B) a Bergamo, contro l’Albinoleffe. Una partita che serve solo per centrare il record di punti nella storia del campionato cadetto e finire primi – là dove i granata sono stati per quasi tutto il tempo – davanti al Pescara. Ancora questa, poi basta però. Negli ultimi quindici anni abbiamo visto più Albinoleffe che Milan, più sabati pomeriggio che domeniche sera, più playoff che Intertoto.

    Ancora una, poi basta. Oggi il Torino gioca l’ultima della stagione (serie B) a Bergamo, contro l’Albinoleffe. Una partita che serve solo per centrare il record di punti nella storia del campionato cadetto e finire primi – là dove i granata sono stati per quasi tutto il tempo – davanti al Pescara. Ancora questa, poi basta però. Negli ultimi quindici anni abbiamo visto più Albinoleffe che Milan, più sabati pomeriggio che domeniche sera, più playoff che Intertoto. Senza contare che la serie B su Sky si paga pure a parte. Con tutto il rispetto per le varie Nocerina, Gubbio, Castel di Sangro e Cittadella: abbiamo dato, non vorremmo vedervi mai più.

     

    L’uomo per natura è portato a sperare, il tifoso del Torino ha fatto sua questa evidenza e l’ha portata al paradosso, alla follia, all’amore. Ogni volta è la volta buona. Ogni volta è la volta che “con un paio di acquisti giusti torniamo a fare campionati da protagonisti”. Il “dai ch’a l’è ura” (dai che è il momento giusto, in piemontese) urlato da noi tifosi allo stadio dice questo. Quasi sperare contro ogni speranza, se la citazione è lecita. La storia del Torino è talmente piena di schiaffoni del destino da avere ormai tolto ogni dubbio: il destino, sotto sotto, tifa Toro. Altrimenti lo avrebbe lasciato perdere (ma forse non è il verbo giusto) già da molto tempo. E invece. E invece torna, si accanisce, finge di distrarsi e poi colpisce ancora. Non si può mai stare tranquilli. Sessantatré anni fa ci ha portato via la squadra più forte del mondo con le nuvole basse che coprivano Torino e nascondevano la collina di Superga contro la quale si andò a schiantare l’aereo che riportava a casa i Campioni d’Italia da un’amichevole in Portogallo. Nemmeno vent’anni dopo ci strappava via uno dei giovani più promettenti del calcio italiano, Gigi Meroni, falciato da un’automobile in pieno centro a soli 23 anni. Dopo una vittoria. Poi, in un capolavoro di sadismo, ha fatto diventare il guidatore di quella dannata automobile presidente del Torino poco più di trent’anni dopo. Va da sé che con quel presidente, nel 2005, pochi giorni dopo avere conquistato la promozione in A con una squadra composta da giocatori che per tre quarti sono nella massima serie ancora oggi, il Torino fallì.

     

    Anche per questo, quando domenica scorsa Giuseppe De Feudis ci ha dato la certezza della serie A segnando il gol del 2-0 al Modena, e su Torino si è scatenato un nubifragio, nessuno si è stupito. Chi non sa cos’è il Toro ha provato a fare dell’ironia. Era tutto normale, invece. Roba da dilettanti. La settimana prima, ça va sans dire, aveva smesso di piovere appena in tempo per la festa della seconda squadra di Torino, che aveva riempito le strade della città grazie a robusti rinforzi di tifosi arrivati dal resto d’Italia. Al fischio finale di Torino-Modena, mentre lo speaker dello stadio cercava – con discreti risultati – di impedire alla gente di invadere il campo, tanti hanno pensato (lo ha poi scritto Massimo Gramellini sulla Stampa) “adesso basta però, non se ne può più di festeggiare promozioni in serie A”. Ma la questione non era tanto scendere in strada a festeggiare il ritorno nel calcio che conta (per dirla in modo originale). La questione era che bisognava riprendersi la città, adesso che i pullman bianconeri targati Milano, Cesena e Crotone se n’erano andati. E poiché siamo del Toro, e le cose comode non ci piacciono troppo, appena usciti dall’Olimpico – sotto la pioggia – siamo andati mica subito in piazza, ma davanti alle macerie del vecchio stadio Filadelfia. Quello del Grande Torino, della scuola calcio che ha cresciuto un sacco di campioni, quello che un ex sindaco tifoso fece abbattere nel 1998 promettendoci di ricostruirlo in tre giorni, roba da far impallidire Gesù col tempio. Quell’ex sindaco non era Gesù però, e per qualche intoppo misterioso che in quella città solo alla squadra granata impedisce di costruire stadi come se fossero castelli gonfiabili, il Filadelfia è rimasto un prato brullo con qualche muro attorno. Eravamo tutti lì davanti, comunque, schiacciati tra i palazzi dalle cui finestre cominciavano a spuntare bandiere e uomini, sciarpe e bambini, maglie granata e donne. Mentre la pioggia continuava a scendere si cantava molto per la serie A appena riconquistata, ma anche tanto, tantissimo, contro i cugini. Poi è sbucato il pullman scoperto con i giocatori, che a fatica è arrivato in piazza San Carlo dopo qualche ora, tra due ali di folla.

     

    Torino è come il villaggio di Asterix. Lo si diceva per la politica, quando il Pd al nord vinceva solo là, vale di più per il calcio: la squadra più tifata d’Italia non riesce a essere maggioranza a casa sua, là dove la sua dirigenza comanda quasi tutto da sempre (la Juventus nacque al liceo D’Azelio, fucina della borghesia bene della città per decenni, dove si insegnava una certa gestione del potere e una certa lontananza da tutto ciò che è troppo popolare). Era necessario tornare in serie A anche per ribadire tutto questo. Per una settimana qualcuno ha pensato che Torino fosse bianconera. Si sbagliava. “Torino è stata e resterà granata” è uno dei cori più antichi che la Curva Maratona intona durante le partite. Meglio di uno slogan politico, dice della verità e della volontà di un popolo talmente folle da avere un complesso di superiorità (copyright Giampaolo Ormezzano) nei confronti della squadra più titolata, tifata e coccolata d’Italia. Là dove ci sono due squadre della stessa città, non c’è nulla di paragonabile a quello che succede a Torino. Bene o male Milan e Inter, Roma e Lazio, Genoa e Sampdoria si spartiscono le vittorie (campionati, coppe, qualificazioni…). A Torino questo non succede in modo duraturo da almeno quarant’anni (una parentesi negli anni Ottanta e un’altra, piccolissima, a inizio Novanta, culminata con un quasi fallimento). Eppure il tifoso del Torino fa la tara su di loro. Per la festa promozione dell’altro giorno non si aveva in mente la festa promozione del Pescara, diretta rivale per una stagione intera. Si aveva in mente la festa scudetto dei cugini. Questo, si capisce, mette non poca pressione a un giocatore che indossi la maglia granata. “Domenica ho visto festeggiare in centro il quaranta per cento della città – ha detto prima della partita decisiva conto il Modena l’allenatore Giampiero Ventura – tra pochi giorni spero di portare in piazza il restante sessanta”. E’ stato accontentato.

     

    Pensare a come tutto è cominciato dà ancora più peso a quanto è successo. Quando la scorsa estate, dopo un campionato fallimentare finito fuori dalla zona playoff, viene chiamato Ventura sulla panchina del Toro, i tifosi quasi non ci credono più. Il presidente Cairo, passato nel giro di sei anni da “salvatore” a “cialtrone”, è contestatissimo: in pochi si abbonano, e quel che resta del tifo organizzato promette proteste a oltranza. Ventura fiuta l’aria, accetta l’incarico a patto che il presidente non metta becco sugli acquisti da fare e sul modo di giocare (Cairo aveva spesso attacchi di berlusconite acuta, diminuiti molto col passare degli anni), e spiega ai giornalisti che il suo compito è – prima di riportare la squadra in A – ridare l’orgoglio ai tifosi. “Voglio che vadano in giro per la città a testa alta”, è il suo progetto. Il primo tempo della prima partita del campionato, Ascoli-Torino, finisce 1-0 per i padroni di casa, con i nostri beniamini che offrono un gioco più confuso di una dichiarazione di Quagliarella nel dopo partita. In preda a un comprensibile attacco di cinismo, ho cominciato a scrivere a tutti gli amici che ormai eravamo destinati a scomparire, che non era cambiato niente e che avrei passato un altro anno a rovinarmi i sabati pomeriggio guardando con mia moglie degli squallidi pareggi contro squadre improponibili, a subire eurogol da giocatori alla loro prima presenza tra i professionisti e a costringere i bambini in casa invece di andare al parco a giocare con la palla. Il secondo tempo di Ascoli-Torino fu la svolta: due ragazzini in prestito dalla Primavera del Milan fanno i fenomeni e ribaltano il risultato. 2-1. Il “Papà, io sono del Toro” detto da mio figlio duenne a fine stagione (avrà tutto il tempo per cambiare idea, certo) ha di colpo cancellato ogni senso di colpa per i mancati pomeriggi al parco. E anche questo è merito di mister Ventura.

     

    A noi granata piace pensare (e sicuramente è così) che quella maglia sia in grado di cambiare i giocatori. Paolo Pulici, indimenticato bomber del Toro degli anni Settanta, ancora oggi risponde così a chi gli chiede se tifa Toro: “No, non tifo Toro. Io sono il Toro”. Si parva licet componere magnis, la storia del capitano di quest’anno, Rolando Bianchi, ha molto da insegnare. Qualche anno fa Bianchi giocava nel Manchester City. “Giocava” è una parola grossa, ma di sicuro non se la passava male lassù. Succede che nel mercato di gennaio si fa insistente la voce di un suo arrivo sotto la Mole (sponda giusta, non quell’altra). Lui stesso si sbilancia con qualche dichiarazione ammiccante, salvo poi, all’ultimo momento, preferire la Lazio. Il destino, è stato già scritto, sotto sotto tifa Toro, e fa in modo che il suo esordio con i biancocelesti sia proprio a Torino. Bianchi entra in campo nel secondo tempo, e all’Olimpico si batte il record di volgarità e bestemmie mai sentite in un colpo solo. Il suo ingresso in campo è accolto da un boato assordante, la folla inferocita chiede il sangue della vittima sacrificale. Non serve nemmeno che ci pensi qualche giocatore granata: ogni pallone toccato da Bianchi è travolto dai fischi degli spettatori, fino a che il ragazzo non perde la testa. Nel giro di un paio di minuti si fa ammonire due volte per falli violenti, ed esce tra i buu come nemmeno un tenore al Regio di Parma dopo una stecca. Roba da ricordarselo per tutta la vita. Bianchi ha carattere, e quando qualche mese dopo ha la possibilità di andare al Torino non se lo fa ripetere due volte. Il suo obiettivo è farsi perdonare. All’esordio segna subito, ma diventa protagonista (seppure tra i pochi a salvarsi grazie all’impegno) della retrocessione in serie B. A questo punto chiunque avrebbe detto grazie e arrivederci. Lui invece resta in B, dice che ancora deve farsi perdonare. Segna un sacco di gol nei due anni successivi, sfiorando la A nel primo, diventa capitano ma resta parecchio egoista: nello spogliatoio, si dice, non è proprio il più amato della compagnia. I tifosi però già lo amano, anche perché lui resta per il quarto anno consecutivo. Fa la sua stagione peggiore, con record negativo di gol. Eppure è la migliore. Parte spesso dalla panchina – Ventura gli preferisce altri – ma è il primo a correre in campo ad abbracciare i compagni quando fanno gol. Corre e lotta come ogni giocatore “da Toro” dovrebbe fare, e dopo il fischio finale di domenica scorsa si dà alla gioia più esaltante. La Maratona per l’occasione ritira fuori l’enorme sagoma a forma di Toro che piazza proprio davanti alla curva: nel pieno della festa Bianchi ci sale sopra e, da oltre due metri di altezza si lancia a peso morto sui tifosi, che lo afferrano e lo portano in trionfo. Sic transit l’odio degli ultras: basta vedere uno che dà tutto per la maglia, e gli si può perdonare qualsiasi sgarbo. Anche l’avere giocato nella Juve (il nome di Pasquale Bruno ancora strappa sospiri di rimpianto nei tifosi dai trent’anni in su).

     

    Certo, non basteranno l’orgoglio e la grinta per rifare grande – o almeno non troppo piccolo – il Torino, certamente non il ripiegarsi su se stessi a compiangere le sfighe di una vita. Lo ha detto Angelo Ogbonna, vicecapitano e pluriconvocato in Nazionale da Prandelli nonostante la sua militanza in serie B. Nigeriano d’origini e italiano di nascita, Ogbonna è uno dei pochi che quando il Torino fallì nell’estate del 2005 (giocava nelle giovanili) non se ne andò. Gli è capitato in sorte di essere quello che Federico Balzaretti non fu mai: da capitano e simbolo, quell’estate Balzaretti – dopo avere giurato amore eterno alla maglia – se ne andò alla Juve. Le due volte che, con altre maglie, ha giocato a Torino contro il Toro, è stato sostituito per manifesta incapacità: ogni pallone toccato portava con sé un mare di fischi e il ragazzo andava in confusione, si può capire. Ogbonna è stato più saggio: con un futuro da campione davanti, non ha mai giurato amore alla causa. Semplicemente ci si è dedicato con tutto il cuore e, facendo intendere che prima o poi andrà a fare il difensore per qualcun altro, ha auspicato che i tifosi imparino ad amare il Torino come è adesso e come sarà domani, non soltanto come era un tempo. Solo così si potrà costruire. Senza perdere la memoria, ma senza perdersi nella memoria.

     

    Per fare questo basterebbe intanto ricostruire il Filadelfia (la memoria) e farci giocare le giovanili (il domani). Quando a sette anni misi piede su quel campo per la prima volta, dopo che l’altoparlante che chiamava le nuove leve dei pulcini aveva scandito il mio nome, capii che non avrei potuto tifare per nessuna altra squadra. Pensare che la mia prima allo stadio fu Juventus-Sampdoria, uno 0-0 di uno squallore memorabile, che non mi fece innamorare nemmeno un po’. Era destino. Anche perché la prima del Torino non fu proprio banale: il derby del 14 maggio 1989 (naturalmente fummo retrocessi a fine stagione). I pulcini del Torino dovevano entrare in campo prima della partita, e poi fare il giro dello stadio. Sotto la curva Filadelfia (si chiamava così allora il settore dove sedevano i tifosi vestiti con quei colori tristi) fummo investiti da fischi e insulti. La partita finì 0-0. Anni dopo Massimo Mauro avrebbe detto che gli juventini non avevano voluto infierire, ma non era il risultato che contava quel giorno. C’era in gioco l’appartenenza. E anche un po’ di libertà: tra quei bambini vestiti di granata quel giorno non c’ero solo io, destinato a una carriera molto poco calcistica, ma anche un certo Federico Balzaretti.

     

    Ci deve essere un motivo se ancora oggi uno come Renato Zaccarelli, capitano degli anni Settanta, si commuove quando gli chiedi qualcosa del Toro, e se a uno come Emiliano Mondonico brillano gli occhi quando spiega che cos’è il “cuore Toro”. Non è solo questione di ciò che è stato, ma di ciò che è. Chiedete a qualsiasi giocatore che in vita sua è stato promosso in serie A con una squadra qualsiasi, o a uno che ha pareggiato una volta contro la Juve, che cosa ne pensa. Vi dirà che è stato bello. Poi chiedetelo a uno del Toro. Chiedete a Roberto Muzzi che cosa è stata la finale di playoff contro il Mantova nel 2006, 70.000 spettatori sugli spalti come nemmeno a Juventus-Real Madrid in Champions. Chiedete a un giocatore del Bologna di quest’anno che cosa è stato pareggiare allo Juventus Stadium. Poi chiedete ad Antonino Asta che cosa è stato il derby dell’ottobre 2001: i primi 45 minuti finiti sul 3-0 per i bianconeri, i tre gol granata nei secondi 45 e il rigore sbagliato al 90’ dalla Juve sotto la sua curva. Non c’è nulla di banale se si indossa questa maglia, anche se in tanti hanno provato a farlo diventare banale. La curva più bella del mondo per anni ha cantato per una squadra che non meritava tanto amore. Adesso può continuare a farlo con più fiato per una cosa nuova che finalmente assomiglia al Toro di un tempo.

    • Piero Vietti
    • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.