Il successo dell'Atalanta al di là del sovranismo bergamasco

Undici giocatori e otto nazionalità differenti è qualcosa di mai capitato a Bergamo. La squadra di Gasperini continua a vincere e ora è quinta in campionato

Leo Lombardi

Che una mutazione fosse in atto nell'Atalanta, lo si avvertiva da tempo. La conferma la si è avuta nel fragoroso 3-0 inflitto alla Juventus in Coppa Italia. Uno leggeva la formazione e non c'era un italiano che fosse uno tra gli undici titolari, come una delle tante Inter di anni recenti. Non solo: undici giocatori e otto nazionalità differenti. Qualcosa di mai capitato, a Bergamo. Qualcosa di mai capitato, soprattutto, nella società che ha fatto del centro sportivo di Zingonia il luogo in cui svezzare talenti, e per la gran parte italiani. Oggi la bandiera del sovranismo è tenuta alta da Gianluca Mancini, cresciuto comunque nel vivaio della Fiorentina. Contro la Juventus era in panchina, però abitualmente è lui il centrale di difesa, unico italiano titolare. Uno che l'Atalanta ha pescato due anni fa a Perugia e che si appresta molto probabilmente a vendere in fretta, visto come sta giocando.

 

Certo, poi se si va ad analizzare il campionato Primavera, l'Atalanta è sempre lì, al primo posto. E anche negli altri tornei giovanili, salvo rare eccezioni, non si scende oltre il terzo. Ma in prima squadra non vedi più arrivare giovani nerazzurri. Se si presentano, sono gambiani, come Musa Barrow. Gli altri? Salutati. Come accaduto in estate con Mattia Caldara e Andrea Petagna, oppure con Leonardo Spinazzola e Bryan Cristante, “non-zingoniani” ma titolari fissi. Oggi la nuova impresa sportiva che Gian Piero Gasperini sta confezionando è stata interamente costruita all'estero, con buona pace di chi, tra Bergamo Bassa e Bergamo Alta, vota Lega e poi tifa Dea. Un'operazione di successo perché, chiunque sia arrivato da quelle parti, ha saputo calarsi immediatamente nella nuova realtà. Una realtà che, rispetto ad altre piazze, è fatta di dedizione alla causa, quella verso una squadra che ha un rapporto diretto e profondo con i suoi sostenitori. Per questo il paragone con l'Inter va bene, ma fino a un certo punto: chi va all'Atalanta dà tutto se stesso, anche se giunge da fuori Italia e anche se non ha fatto tutta la trafila delle giovanili. Ma poi finisce che è come se l'avesse fatta, tale è l'osmosi che si crea tra ambiente e squadra.

 

È il frutto della bravura della famiglia Percassi, che ha saputo pescare giocatori che si sono rivelati intelligenti da questo punto di vista: non semplici percettori di stipendio, ma elementi in grado di capire in fretta la situazione e di dare in campo fino all'ultimo barlume di forza. È il frutto del lavoro di un tecnico come Gasperini, tra i pochissimi in Italia a intuire quale sia il valore del capitale umano a disposizione e il modo in cui farlo fruttare fino in fondo, prima sul campo e poi al mercato. È il frutto della passione di una piazza che, dopo gli eccessi in negativo degli anni passati, ha trasformato il tifo per l'Atalanta in una forza che spinge chi scende in campo a dare qualcosa in più del dovuto.

 

Oggi la squadra nerazzurra si gode un quinto posto con vista Champions, sognando il sorpasso sabato sera, quando ospiterà il Milan che si trova avanti di un punto. E se Petagna segna ancora una volta da ex in maglia Spal, come capitato con la doppietta all'andata e come capitato con il gol di domenica pomeriggio, ci sono poi un Ilicic e uno Zapata a ribaltare il tutto. Un'Atalanta sempre più vicina all'Europa e con uno sguardo al futuro. Quello che porterà un nuovo stadio di proprietà (i lavori partiranno a maggio), in cui giocheranno nuovi stranieri pronti a capire che cosa significhi indossare quella maglia e in cui dove – è l'augurio per il bene della causa azzurra – torneranno protagonisti talenti che crescono a Zingonia.

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