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Dopo gli scontri di Inter - Napoli gli sconfitti siamo noi

Giovanni Francesio

Il mondo ultras e la morte del tifoso nerazzurro nella rubrica Tifare contro. "Siamo qui a parlare di coltelli, di razzismo, e a fare funerali; siamo qui a prendere atto che il calcio in Italia continua a scatenare pulsioni feroci e irredimibili"

Ecco la rubrica "Tifare contro" curata da Giovanni Francesio per il Foglio sportivo che troverete in edicola sabato 29 dicembre


  

Era abbastanza prevedibile, dopo la disastrosa serata di mercoledì, che la frase d’ordinanza fosse “non si può morire per una partita di calcio nel 2018”; frase che però, purtroppo, smentisce se stessa, visto che si può morire eccome, per una partita di calcio, nel 2018. Come si muore? Si muore partendo da Varese per partecipare, armati (spranghe e lame assortite), insieme a ultras dell’Inter e, pare, del Nizza, a un assalto alle macchine dei napoletani, a due chilometri da San Siro, per poi finire investiti da un Suv in fuga. Sempre, negli scontri ultras, c’è una componente di casualità, quando muore qualcuno; ma a volte, ed è il caso di mercoledì, c’è la volontà di spingersi ai confini estremi del destino, in un territorio dove le cose tendono a scappare di mano, e ad andare come vogliono loro. Quasi sempre nel modo peggiore possibile.

 

 

Il segno inconfutabile di questa determinazione a sfidare la sorte è la presenza dei coltelli. Perché i coltelli possono fare molto male, e sempre fanno paura, e anche la paura può fare molto male. Quella sulla legittimità o meno delle lame negli scontri è una diatriba che nel mondo ultras dura praticamente da sempre: “Basta infami, basta lame”, era il titolo del volantino firmato dalla gran parte dei gruppi all’indomani della morte – per coltello – di Vincenzo Spagnolo (1995); un buon proposito durato pochissimo, visto che negli anni successivi arrivarono risposte come la sigla “BISL” (Basta Infami Solo Lame), o striscioni tipo “Se volete fare a pugni andate in palestra. Negli scontri l’unica regola è: nessuna regola”. E alle parole, come al solito, seguirono, e continuano a seguire, i fatti. Anche questa volta, nessuna regola: anche questa volta, un morto.

 

Mercoledì è stato l’ennesimo giorno nero del calcio italiano, ancora più avvilente perché era il 26 dicembre, il “Boxing day” di stampo anglosassone, che in Italia non si disputava dal 1971. Giocare a Natale era un tentativo, generoso, di avvicinare la Serie A agli splendori della Premier, a spingere il calcio verso una dimensione di intrattenimento “sano”, perfetto corollario alla festività, insieme agli aperitivi, al pranzo con gli zii, alla tombola e al cinepattone.

 

E invece, con le luci di Natale ancora accese, siamo qui a parlare di coltelli, di razzismo, e a fare funerali; siamo qui a prendere atto che il calcio in Italia continua a scatenare pulsioni feroci e irredimibili, e siamo qui a dirci che noi, quelli degli stadi, quelli delle curve come luogo di aggregazione popolare, quelli del mondo ultras “libero e vero”, siamo i più sconfitti di tutti.

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