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Gli ultras violenti e il legno storto dell'umanità

Jack O'Malley

Decenni di ricette sbagliate e la ricerca del capro espiatorio morale. Studiare il modello tedesco

Come vi sapete martellare da soli voi – lo ha detto bene Gattuso – nessuno al mondo. Tutti campioni dell’indignazione ex post, del giudizio definitivo twittato a caldo, dell’analisi sociologica tagliata con l’accetta per farla entrare in un post, dell’editoriale senza se e senza ma ripreso identico dalla volta precedente, esperti mondiali della redenzione degli irredimibili (“cultura!”, “educazione!”, “pugno duro!”) fino al prossimo derby, il prossimo arbitro cornuto, il prossimo devi morire. Adesso però avete scoperto che il razzismo è colpa del governo in carica (vi do una notizia: i buu ai giocatori neri negli stadi italiani li facevano già più di vent’anni fa, e ci sono tifosi razzisti anche nei campionati che in questi giorni vi affrettate a dipingere come modelli da seguire), e potete continuare a non capire per un altro po’, a scegliere di quali buu parlare e di quali no a seconda del risultato finale e della squadra colpita, e a sentirvi la coscienza a posto dopo averci spiegato dalla tribuna stampa che il male (del calcio?) è in quei delinquenti chiamati ultras, neonazisti pericolosi e senza scrupoli estirpati i quali potremo sognare stadi talmente perfetti che nessuno avrebbe più bisogno di essere tifoso.

 

Sono quarant’anni che gli esperti spiegano le loro ricette affinché non ci sia più violenza dentro e fuori dagli stadi, che si invocano interventi e rivoluzioni – sempre “culturali” – per sistemare quello che non va, con la sottaciuta aspirazione di raddrizzare il legno storto dell’umanità tutta. Ogni volta veniamo a scoprire – sempre dopo però – che forze dell’ordine e società conoscono i protagonisti dei disordini, e vengono fatti chiudere gli stadi e svuotate le curve per un po’, ammettere di avere sbagliato prima sarebbe troppo, più facile colpirne cento per educarne uno. Dopo ogni scontro o atto di violenza legato al calcio il riflesso pavloviano dei commentatori è parlare di come Margaret Thatcher negli anni Ottanta ha vinto la sua battaglia contro gli hooligan inglesi a colpi di leggi dure ed efficaci. Quel modello ha salvato diverse vite, allontanato i violenti dagli stadi e permesso alle famiglie di riempire gli spalti, ma pure io ammetto che una partita di Premier League è più uno spettacolo teatrale con buoni attori e un’ottima visuale che sublimazione sportiva di uno scontro sul campo di battaglia. Forse è giusto così, forse non è più il tempo di passioni bestiali, certamente molto del codice d’onore degli ultras è andato a farsi fottere, troppe dinamiche sono sfuggite di mano generando inaccettabili violenze.

 

In Germania – e forse è questo il modello da studiare – la maggioranza delle quote di un club calcistico deve essere per legge nelle mani di soci-tifosi, lasciando in minoranza gli investitori privati: lì il tifo è bello, spettacolare, caldo e sentito (ma neppure tra i tedeschi mancano gli ultras – chiedete ai romani come è andata l’ultima trasferta europea dell’Eintracht di Francoforte – e anche gli hooligan ci sono lo stesso). Sulla Gazzetta dello Sport di venerdì c’era un bell’articolo sul tifoso interista di Varese morto prima della partita con il Napoli: ne veniva fuori il ritratto di un uomo con passioni forti, un lavoro, una famiglia, forse scelte sbagliate e impulsi veementi. Non l’incarnazione del male assoluto di cui erano piene le opinioni di tutti, il capro espiatorio che ci permette di andare a dormire sereni perché “tanto io non sono come lui”.

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