Leo Messi, stella del Barcellona, resta a terra dopo un infortunio contro il Las Palmas (foto LaPresse)

Che ne sarà del Barça?

Maurizio Stefanini
Una crisi di risultati senza precedenti e l'incognita dell'indipendenza della Catalogna. Viaggio nell'identità del club più leggendario al mondo. E che adesso, forse, è in pericolo

“Més que un club”, dicono del Barcellona, più di un club, proprio perché non si tratta solo di una squadra di calcio, ma di un’icona dell’identità catalana. È azzardato allora pensare che anche l’improvvisa crisi che ha colto i blaugrana proprio in concomitanza con un voto regionale sulla “disconnessione” da Madrid sia “più di una crisi”? Qualcosa di più dei guai che ad esempio stanno da noi travagliando il Milan o la Juventus. Nelle prime quattro giornate della Liga per la squadra che la scorsa stagione aveva vinto scudetto, Copa del Rey, Champions, e Supercoppa d’Europa erano state quattro vittorie, comprese due difficili trasferte con l’Athletic Bilbao e con l’Atlético Madrid.  Ma nella settimana delle elezioni per il Parlament di Barcellona, cinque giorni prima del voto del 27 settembre, ha incassato un umiliante 4-1 in Galizia, dal Celta di Vigo. Il 25, due giorni prima del voto, è tornato a vincere per 2-1, contro il neo-promosso Las Palmas (ma pur sempre sbagliando un facile 3-0 e incassando un gol evitabilissimo nel finale, e perdendo Leo Messi per un infortunio al ginocchio che lo terrà fermo un paio di mesi). E poi venerdì, prima partita dopo le elezioni, nuovo scivolone a Siviglia: 1-2.

 

C’è chi sostiene che in realtà i segnali negativi risalgano addirittura dal 14 agosto, quando il Barcellona nell’andata di Supercoppa spagnola aveva ricevuto a Bilbao un 4-0 che le aveva fatto perdere la possibilità di completare la stagione con uno storico en plein di cinque titoli, fermandosi al ritorno sull’ 1-1.  Tre giorni prima la Supercoppa europea era stata vinta a fatica 5-4 col Siviglia, dopo che gli andalusi avevano rimontato da 4-1 a 4-4. E anche il pareggio con la Roma all’Olimpico del 16 settembre in Champions è stato percepito come un passo falso. Ovvio che sui giornali sportivi il dibattito giri innanzitutto sulle responsabilità di Luis Enrique. O sul calo di Messi, o su Piqué che contro il Celta era diventato un “buco nero” della difesa. O su altri infortuni e abbassamenti di forma. Ma le cronache politiche avevano parlato più ancora di Pep Guardiola, uno dei grandi nomi legati alla storia della squadra, candidato nella lista indipendentista di Artur Mas, anche se solo all’ultimo posto. “È triste, c’è gente per cui l’unico Dio è il denaro”, aveva commentato irato il ministro dell’Interno Jorge Fernández Díaz, ricordando un decennio di Guardiola nella nazionale spagnola. Ma già i quattro candidati alle elezioni del club per il presidente della squadra si erano fatti fotografare con una t-shirt con i colori della Cataogna e la scritta 27-S. “Non sono più del Barça”, aveva detto il famoso presentatore della tv catalana Xaviér Sardà, mentre la ong antiseparatista Societat Civil Catalana accusava i dirigenti di “imbastardire la storia del Barcellona”. Anche l’Uefa l’aveva multata, per il modo in cui alla finale di Champions i tifosi avevano fischiato l’inno spagnolo.

 

Tutto ciò non impedisce però a Inés Arrimadas di essere una grande tifosa del Barcellona. La 34enne avvocatessa dal fisico da modella, alla testa di quella lista antiseparatista di Ciudadans è arrivata seconda in Catalogna, con lo slogan “un nuovo progetto di Spagna per sedurre i catalani”. E chi ha fatto qualche calcolo ha pure stimato che l’indipendenza costerebbe al Barcellona almeno 100 milioni di euro all’anno in diritti televisivi. 125 milioni è quanto incassa ora, 25 milioni sarebbero l’attrattiva di un nuovo campionato catalano con Barcelona, Espanyol e altre quadre che oggi al massimo stanno nella serie C spagnola. Senza contare il rischio di non essere riconosciuti da Fifa e Uefa, e restare dunque fuori dalle grandi coppe. La minaccia di essere espulsi dalla Liga in caso di indipendenza è stata infatti agitata da Madrid, assieme a quelle della cacciata dall’euro e della fuga di banche e di imprenditori.

 

“L’esercito di un paese disarmato”, è stato definito il Barcellona da Manuel Vázquez Montalbán. In realtà il famoso motto “més que un club” non nacque con la squadra nel 1899, ma fu pronunciato per la prima volta nel 1968, al momento del suo insediamento, dal presidente Narcís de Carreras i Guiteras, in gioventù esponente del  partito autonomista moderato della Lliga Regionalista de Catalunya. Era stato invece deputato della indipendentista Esquerra Republicana de Cataluña  l’altro presidente, Josep Sunyol i Garriga, fucilato dai franchisti nel 1936. Durante un’ispezione in veste ufficiale al fronte di Guadarrama, il suo autista lo aveva portato per sbaglio in bocca al nemico, che lo aveva messo subito al muro non appena riconosciuto.

 

[**Video_box_2**]La vittoria di Franco nel 1939 portò a una drastica “normalizzazione” del club: imposizione del presidente dall’alto; traduzione nel 1940 del nome inglese Football Club Barcelona nello spagnolo Club de Fútbol Barcelona; sostituzione sullo scudo della bandiera catalana con quella spagnola. Ma nel 1949 in omaggio al  cinquantesimo anniversario dalla fondazione, le quattro barre gialle e rosse della Catalogna furono ristabilite e nel 1953 fu ripristinata anche la possibilità di scegliere i dirigenti in modo autonomo. Si iniziò così a eleggere il presidente a suffragio diretto di tutti i soci, procedura democratica in implicita polemica contro la gestione autoritaria dello Stato spagnolo. Questo coinvolgimento diretto dei tifosi spiega il gran numero di affiliati: dai 2.500 soci del 1940 ai 25.000 del 1949, 38.000 del 1957, 55.000 degli anni Sessanta, 80.000 degli anni Settanta, 100.000 degli anni Novanta, fino ai 144.756 attuali. Specie dopo i grandi successi degli anni Cinquanta, il nuovo stadio del Camp Nou, inaugurato nel 1957, fu quasi l’unico posto della Spagna dove simboli e slogan ufficialmente proibiti dal regime venivano esibiti in piena impunità. Per questo il Barcellona organizza pure un concorso d’arte, che una volta ebbe anche Salvador Dalí tra i suoi iscritti. E il museo del Barcellona è il più visitato della città, anche più del Museo Picasso. Componente essenziale di questa identità è la competizione con l’altra squadra dell’Español, dal 1995 Espanyol in catalano, vista come espressione degli immigrati e dei funzionari venuti a Barcellona dal resto della Spagna e dunque anti-catalanisti, anche se in realtà si era chiamata in quel modo, nel 1900, solo in contrapposizione allo “straniero” Barcellona, fondato da uno svizzero e che era pieno di giocatori non indigeni.

 

L’affezione ai campioni stranieri nel Barcelona è rimasta. I tifosi dicono che è servita per resistere alle prepotenze del regime di Franco, il quale teneva per il Real Madrid in modo così fanatico da conoscerne le formazioni a memoria risalendo indietro negli anni. Il Barcelona-Real Madrid 5-0 del 1974, con tre goal dell’olandese Cruijff, è stato visto da molti come la vera fine simbolica del franchismo, con un anno di anticipo sulla morte del dittatore e tre sul ripristino della democrazia. È vero pure che ormai il Barcellona con la sua collezione di trofei ha tifosi in quantità anche tra gli spagnoli “immigrati”. Secondo molti, se il Barcellona ha tenuto alta la bandiera del nazionalismo catalano durante il franchismo, in compenso ne ha smorzato l’estremismo una volta tornati alla democrazia. In qualche modo, i successi del Barcellona insieme con quello economico della Catalogna e al ripristino della Generalitat e del rango ufficiale del catalano, hanno accontentato la voglia di Stato dei catalani. Insomma: il Barcelona è la Catalogna in lotta con Madrid, ma all’interno del sistema Spagna. Se ne esce, rischia di pagare una crisi identitaria che è forse tra i motivi di questa crisi di risultati sul campo di gioco. 

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