Judith Butler - foto via Getty Images

Nel mondo accademico

La “resistenza” ammantata di Lenin ma a braccetto con D'Annunzio

Guido Vitiello

Dalla lotta di classe agli attacchi del 7 ottobre. Le tesi oscene di Judith Butler, figlie di Sartre e spiegate da Aron

Ora che si vanno diradando i due polveroni della settimana – il mulinello nazionale sollevato dal tweet balengo di una onnipresente professoressa di Filosofia a proposito della brigatista Barbara Balzerani, la nube internazionale un po’ più grossa generata dalle sconcezze dette in Francia dalla filosofa Judith Butler sul pogrom del 7 ottobre come semplice “resistenza” – tutto ciò che mi resta tra le dita è un brandello di frase. Sono poche parole di Antonio Tabucchi, strappate via da una recensione di Compagna luna che il Corriere della Sera ha riproposto in occasione della morte della Balzerani. Nel memoriale romanzato della brigatista rossa, scriveva Tabucchi, “si danno la mano, a loro insaputa, un Lenin di propaganda e un D’Annunzio di periferia”. Potrà sembrarvi poca cosa, un colpetto sarcastico ben piazzato; ma tirando con cura il filo pendente di questa frase, vedrete, verrà giù un intricatissimo arazzo di inganni, di sottili illusioni e di grossolani abbagli.
 

Il dannunzianesimo – il grande “complesso” rimosso della psiche nazionale, diventato modello inconscio di mille pose e carriere intellettuali – è chiamato in causa troppo di rado quando si parla del terrorismo italiano. Usanza vuole che si deprechi l’antilingua astrusa e burocratica dei comunicati brigatisti (che di dannunziano non avevano un bel nulla) e si chiuda lì la perizia letteraria. Quei comunicati erano in effetti il “Lenin di propaganda”; ma era altrove, nel “vivere inimitabile” del militante clandestino, che bisognava cercare il “D’Annunzio di periferia”. Non è un caso che l’angelo custode della carriera letteraria di Balzerani sia stato Erri De Luca, il vate dell’estetismo operaio, il mitografo (autonominato) di quella piccola frazione della gioventù degli anni Settanta che ambisce a spacciarsi per l’intera “generazione”; quell’Erri De Luca che il critico Massimo Onofri, in un memorabile saggio di qualche anno fa, caratterizzò come “estremo e forse ignaro capitolo d’un eterno dannunzianesimo italiano, ora aggiornato al rosso dell’ideologia”.
 

A dire il vero il dannunzianesimo più vistoso – che voglio intendere qui in senso lato, come via estetico-esistenziale all’azione rivoluzionaria – fu tenuto a freno per quanto possibile nella storia della lotta armata, salvo dilagare nella fase declinante delle Brigate Rosse, quella capeggiata da Giovanni Senzani. Fu in quel momento, ricorda il capo brigatista Mario Moretti, che un côté di “culto dell’azione” fino ad allora marginale prese il sopravvento; perfino Curcio, dice Moretti, in quegli anni scrisse “una specie di ode alla guerra sociale totale e al Partito guerriglia, alla rivoluzione contro un nemico che attraverso lo stato si infiltra nella coscienza proletaria e ne coopta il sentito intimo, per cui il poliziotto è dentro ciascuno di noi”. L’azione terroristica come puro gesto prepolitico o impolitico – esistenziale, appunto – che ci libera dal celerino interiore. Se non è proprio il matrimonio di Lenin e D’Annunzio, è quanto meno uno strano cocktail di marxismo ed esistenzialismo. Qualcuno se ne accorse.
 

Enrico Fenzi, brigatista ligure studioso di Petrarca, era tra i suoi compagni l’unico ad avere il palato abbastanza fine da individuare a colpo sicuro gli ingredienti intellettuali di quel cocktail. Di assaggio in assaggio, Fenzi si convinse che l’ideologia e la prassi delle Brigate Rosse e degli altri gruppi armati avevano un sapore inconfondibile, che si era fatto via via più aspro negli anni del declino; capì anche che il barista che lo aveva mescolato non lavorava in Italia, ma agitava il suo shaker sulla rive gauche. Era Jean-Paul Sartre. Un Sartre in particolare: quello che aveva servito alla sinistra parigina la Critica della ragione dialettica, una polibibita incendiaria fatta per tre quarti di esistenzialismo e per un quarto di dottrina marxiana della lotta di classe; il Sartre teorico del “gruppo-in-fusione” che solo nell’incandescenza dell’azione, e dell’azione violenta, è in grado di superare l’alienazione in cui sono imprigionate le coscienze individuali. “Ho trovato, da non molto, il mio personale ‘grande vecchio’, l’occulto ispiratore della lotta armata – occulto davvero, perché immagino che sia sconosciuto a buona parte di coloro che egli ha ispirato”, scriveva Fenzi a proposito di Sartre in Armi e bagagli, l’unico memoriale brigatista che valga la pena leggere.
 

Ma ci voleva un palato ancora più fine – per l’esattezza, il palato di Raymond Aron – per individuare tutti i sentori e i retrogusti di quell’intruglio, fino (è il caso di dirlo) alla feccia: “Il marxismo della Critica della ragione dialettica”, notò perfidamente Aron in D’une sainte famille à l’autre (Gallimard, 1969), “sfocia in una filosofia della violenza che un maligno battezzerebbe fascista”. Proprio così. Calata nei tormenti dell’esistenzialismo, della ricerca di un senso vitale oltre il nichilismo, la lotta di classe diventa quasi indistinguibile dal culto fascista dell’azione. E così, facendo il giro largo, dai caffè della rive gauche siamo diretti di nuovo verso l’Italia e verso D’Annunzio. Ma non affrettiamoci a posare armi e bagagli; piuttosto, approfittiamo della circostanza che Judith Butler si trova in Francia per sottoporre anche lei all’esame di Aron.
 

Fortuna vuole che in quel suo libro sui “marxismi immaginari”, accantonata la lettura esistenzialista di Marx, Aron si dedicasse a demolire la lettura pseudo-strutturalista inaugurata da Louis Althusser. Ora, so bene che Butler non è propriamente parlando una filosofa marxista (anche se il giovane Marx e il vecchio Althusser sono ingredienti presenti in dosi massicce nel suo immangiabile pasticcio teorico), ma in questo caso l’attualità del saggio di Aron non riguarda tanto il contenuto delle teorie, quanto una certa postura sociale del teorico. E quella postura è tornata di gran moda, negli ultimi anni, proprio grazie all’egemonia accademica di figure come Butler. Diceva Aron che l’opera di Althusser – una summa teologica sotto mentite spoglie scientifiche, un catechismo di gerghi oscuri che disorientano il profano ma che agli orecchi del convertito sembrano rispondersi in un’armonia celeste – era fatta apposta per venire incontro a un tipo speciale di chierici, tonsurati nelle università, che dal culto sartriano della prassi erano tornati ai piaceri più astratti e meno rischiosi della teoresi. Era insomma un marxismo tagliato su misura per gli agrégés di filosofia, in grado di soddisfare in un colpo solo i bisogni speculativi dell’intelletto e i vaghi aneliti del radicalismo rivoluzionario.
 

Ebbene, se ci guardiamo intorno con un po’ di attenzione scoveremo fin troppi eredi di quegli agrégés de philo, che nel frattempo sono diventati, che so io, teorici queer decoloniali con il PhD. Nei refettori del grande monastero della disprezzata università “neoliberista”, li vediamo ruminare quotidianamente a testa china i mille gerghi liturgici della Theory salvo, di tanto in tanto, sollevare gli occhi dal piatto per intonare un alleluia a una sollevazione in armi da qualche parte del mondo, meglio se cruenta. Così si spiegano certe reazioni sconcertanti nelle università americane al pogrom del 7 ottobre; e così si spiega anche il nostro secondo polverone: la star accademica Judith Butler che erige cattedrali di pensiero ben più astratte e pericolanti di quelle di Althusser, oltretutto in una prosa tecnicamente ributtante, ma che vede una logica di “resistenza” nell’entrare a tradimento in una casa per ammazzare a sangue freddo famiglie intere, animali domestici inclusi. Ma anche su questo secondo cocktail diamo al grande sommelier Aron l’ultima parola: “Pensiero e scrittura esoterica, azione violenta, bisogna prendere sul serio questa mescolanza? Dobbiamo ridere o piangere? Onestamente: non lo so”.