Foto Ansa

l'intervista

Per prevenire i femminicidi è ora di prendersi cura anche degli uomini violenti

Maria Carla Sicilia

L'educazione sentimentale e l'inasprimento delle pene non bastano. "Se non facciamo un cambio di paradigma continuiamo ad affrontare il problema a valle e non a monte", ci dice la psicologa Alessandra Pauncz

L’abbiamo visto succedere ancora una volta con la morte di Giulia Cecchettin. E’ la macchina che si mette in moto dopo le tragedie per dare risposte a uno smarrimento collettivo. Inasprire le pene, cercare un colpevole che possa rassicurare tutti perché non è colpa di nessuno se non del patriarcato, inventarsi soluzioni come un’ora estemporanea di dibattito a scuola sulle relazioni, e non fa niente se alla fine l’impatto è trascurabile. Poi, dopo alcuni giorni dalla morte di Giulia abbiamo ascoltato la sua versione della storia con Filippo e in questa finestra rubata sulla vita degli altri abbiamo raccolto qualche elemento in più. Era depresso, non mangiava, minacciava di uccidersi, racconta la ragazza in un messaggio vocale inviato alle sue amiche e pubblicato da “Chi l’ha visto?”. Lei voleva scomparire, ma aveva paura della sua reazione. 

“Ascoltandolo ho riconosciuto la difficoltà delle donne che stanno con uomini che sono violenti ma di cui riconoscono fragilità. Tante volte è proprio questa fragilità che impedisce alle donne di allontanarsi. E così si espongono a ulteriori rischi”. Alessandra Pauncz è una psicologa che lavora da vent’anni con uomini violenti. Nel 2009 ha fondato il primo centro in Italia rivolto a loro e oggi è la presidente della rete italiana che raccoglie questo tipo di strutture, oltre a essere la direttrice esecutiva dell’analogo network europeo. In un colloquio con il Foglio racconta cosa vuol dire fare prevenzione davvero e quanto è sottovalutato il lavoro con gli autori della violenza. Dietro le loro storie non c’è solo una generica fragilità – che come sottolinea Pauncz è individuale e va applicata con cautela all’interno di una lettura sociale e culturale dei casi di cronaca – ma anche una serie di caratteristiche che si ripetono. “Quando pensiamo al patriarcato pensiamo al padre padrone. Ma questa visione stereotipata non è quella a cui dobbiamo fare riferimento oggi. Gli uomini che agiscono con violenza tendono a minimizzare, negare e attribuire la colpa alla donna: se stanno male è perché lei ha detto o fatto qualcosa di sbagliato, perché pretendono un’attività di cura emotiva e affettiva e se manca si difendono con la violenza. E’ un modo per riprendere il controllo della situazione, impedire che la donna continui a fare qualcosa che li fa soffrire”. C’è insomma un rapporto di dipendenza emotiva dalle donne di cui si innamorano e di cui non accettano l’abbandono. Come quella di Filippo che non riesce a lasciare andare Giulia. Ma c’è anche una difficoltà a riconoscerla e ad affrontarla. “Gli uomini vivono una sorta di immaturità affettiva, una mancanza di alfabetizzazione delle emozioni. Alcuni non riescono a concepire che se stanno male devono occuparsi da soli del loro malessere: si curano di meno, vanno meno dal medico, muoiono più giovani. Non si aprono facilmente alla dimensione della sofferenza perché questa ha a che fare con la fragilità e la fragilità è rifiutata all’interno di una cultura che vuole l’uomo forte”.

Offrire spazi di cura e confronto è un primo passo per affrontare il problema. Di Centri per uomini autori di violenza (Cuav) in Italia ce ne sono circa cento. In cinque anni sono raddoppiati ma sono ancora pochi e al sud mancano completamente. Non ci sono le risorse, gli ultimi finanziamenti si esauriranno quest’anno. Non sono realtà in conflitto con i centri antiviolenza che seguono le donne, ma dopo anni di lavoro sull’empowerment femminile forse i tempi sono maturi per guardare l’altra metà del problema. “Serve fare prevenzione rivolta agli uomini perché parliamo di violenza maschile contro le donne. Se non facciamo un cambio di paradigma continuiamo ad affrontare il problema a valle e non a monte”, dice Pauncz. In concreto vuol dire finanziare questi centri, aprire altri spazi di supporto psicologico nei luoghi di aggregazione maschile, stringere accordi con le procure per l’invio e la gestione degli uomini segnalati per violenza e reati collegati. E’ un percorso più lungo ma è un percorso obbligato. 

 

Di più su questi argomenti:
  • Maria Carla Sicilia
  • Nata a Cosenza nel 1988, vive a Roma da più di dieci anni. Ogni anno pensa che andrà via dalla città delle buche e del Colosseo, ma finora ha sempre trovato buoni motivi per restare. Uno di questi è il Foglio, dove ha iniziato a lavorare nel 2017. Oggi si occupa del coordinamento del Foglio.it.