(foto Ansa)

la riflessione

E adesso tocca agli uomini ragionare su questa loro identità del possesso

Marina Terragni

Dopo l'uccisione di Giulia Cecchettin, dopo l'ennesimo caso, sono gli uomini che devono risalire alla radice della loro violenza. Non basta più dire "io non c'entro"

C’è sempre un momento in cui le cose che si ripetono uguali da tanto tempo, quelle 120 donne ammazzate ogni anno da mariti, fidanzati, compagni ed ex – come se si trattasse di una brutta cosa che però va registrata come un fatto di natura – smettono di essere uguali e assumono un altro aspetto. In tutte le case del paese abbiamo atteso notizie su Giulia Cecchettin che è stata da subito la ragazza Giulia sulla rampa di lancio con la sua tesi pronta da discutere e la sua laurea da festeggiare. Dopo 48 ore la notizia ce l’avevamo già, chi mai si poteva fare illusioni, eppure ce le siamo fatte fino all’ultimo. Ci siamo trattenute a sperare perché sentivamo che stavolta le cose uguali non sarebbero più state uguali, sapevamo che da quel momento in poi sarebbe diventato chiaro che le risposte non si possono più pretendere da noi donne, caso del tutto unico in cui alle vittime si chiede di spiegare il comportamento del carnefice. Siamo diventate tutte esperte di quella violenza maschile – e non “di genere”, smettiamola di edulcorare – che abbiamo subito o rischiamo di subire in ogni giorno della nostra vita.

La questione è stata sviscerata, analizzata, decodificata, interpretata in ogni modo possibile. Si è tentato di tutto, anche in perfetta autogestione: dal sostegno e dall’accoglienza per quelle che avevano bisogno di nascondersi dai loro aguzzini ai manuali di valutazione del rischio, dalla richiesta di inasprimento delle pene ai centri di rieducazione per i violenti che in cambio di qualche vantaggio accettano di sottoporsi a terapia per qualcosa che malattia non è. 

 

Ebbene: queste risorse si sono esaurite, la discontinuità del dopo-Giulia sta qui. Adesso, non si scappa, tocca agli uomini sviscerare, analizzare, decodificare, interpretare. Sono loro a doverci spiegare la “perversione del dominio di un sesso sull’altro” (Joseph Ratzinger), a dover ragionare per tutte e tutti su un’identità che continua a strutturarsi nel controllo e nel possesso, che chiede a ogni uomo fin dalla tenerissima età di dimenticare la madre per rimettersi al mondo in un patto tra uomini, una seconda nascita simbolica lontana dall’“abietto materno” (Julia Kristeva). Si tratta di arrivare per questa strada fino alla radice della violenza

 

La gran parte dei maschi di queste faccende non parla. Qualche uomo di buona volontà ci prova ma le buone intenzioni si perdono quasi sempre in commossi sociologismi di maniera. Le donne sono state capaci di rivoltare il mondo, forse l’unica rivoluzione senza spargimenti di sangue, ma l’hanno fatto a partire da sé. Il primo passo è stata la coscienza di sé ed è proprio questo che manca nelle parole maschili sulla violenza. Perché “io no” non può bastare anche se tu sei un uomo che non ha mai ferito, umiliato, violentato una donna. Si tratta di riconoscere anche in sé la presenza di quel dispositivo che nel caso degli uomini non violenti fortunatamente non si attiva, ma sta alla base di quello che ti viene richiesto di essere se hai avuto l’avventura di nascere uomo.  Si tratta di passare dal “ma io no” al “me too” e di trovare il coraggio di fare i conti giusti. 

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