Giuseppe Berto (Wikimedia commons)

passaggio a sud

L'amarezza e la comprensione di Giuseppe Berto per un Mezzogiorno che si trasformava

Claudio Giunta

Lo scrittore e giornalista, in giro tra Calabria, Puglia e Basilicata tra gli anni Cinquanta e Sessanta, osservò lo sviluppo del meridione e i suoi effetti: la corruzione dell'ambiente, dei suoi paesaggi, e quella delle anime di chi ci abitava

Vent’anni fa la casa editrice Monteleone di Vibo Valentia ha pubblicato una raccolta di articoli di Giuseppe Berto sul Mezzogiorno d’Italia dal titolo Il mare da dove nascono i miti, ma mi pare se ne siano accorti in pochi, cioè che l’abbiano letta in pochi, salvo qualche specialista di letteratura contemporanea. Invece è un libro che meriterebbe di avere un pubblico più ampio (Neri Pozza non stava ripubblicando tutte o se non tutte molte delle opere di Berto?). Questi appunti valgono dunque come scheda di lettura per un editore volenteroso. 

A un certo punto della sua vita, com’è noto, Berto si stanca di Roma, soprattutto degli insoffribili intellettuali romani, si stanca della famiglia e va a sud. Compra un pezzo di terra a Capo Vaticano, ci costruisce una casetta, poi altre casette, e vive lì per vari mesi all’anno. I primi articoli sul Mezzogiorno li scrive però prima di questo cambio di vita, nel 1948, inviato del quotidiano Il Tempo. Ha trentacinque anni, non si è ancora sposato, ha appena pubblicato Il cielo è rosso, che è stato un successo; quelle che raccoglie sono impressioni di un viaggio in treno da Roma alla Calabria, e sono impressioni sconfortanti, non troppo diverse da quelle che altri giornalisti e scrittori in missione nel Sud andavano annotando in quegli stessi anni. Una miseria secolare ha tolto ai calabresi il gusto della vita, che ha finito per diventare “una cosa arida e sacrificata, dove anche l’amore, che è la gioia elementare di tutti gli esseri viventi, si attua in un modo nascosto e ombroso”.

 

Le rare città non hanno forza d’attrazione né per i contadini né per il visitatore di passaggio (“Cosenza è una città come Potenza o Catanzaro, dove alla massima parte degli uomini capita raramente di arrivare […]. Appena giunti in un posto come questo, si ha subito voglia di non passarvi neppure la mezza giornata necessaria. E’ come se si venisse in contatto con un ambiente che respinge”); l’economia si trova a uno stadio pre-moderno nel quale gli attori sociali sono ancora l’aristocrazia e la plebe: “Qui veramente sono mancati gli operai e i borghesi, i due principali coefficienti del progresso degli ultimi secoli. Qui non è mai esistita quella borghesia intelligente ed attiva che altrove è stata la molla dei commerci e delle industrie e che ha sgretolato l’ordine sociale del Medioevo”. Che fare? Berto auspica una riforma agraria più severa e radicale di quella che di lì a poco si sarebbe realizzata: “La necessaria premessa a qualsiasi opera di riforma è l’eliminazione dei proprietari signorotti e dei loro accoliti, tutta una classe che con eufemismi cumulativi si può definire incapace e disonesta. Hanno già fatto il loro tempo, e fin troppo male, ed espropriarli senza alcun compenso non sarebbe certo un’ingiustizia”.

 

Una seconda serie di articoli risale alla primavera-estate del 1956. Berto torna nel Mezzogiorno (Puglia, Calabria, Basilicata) e ne scrive sul quotidiano Il Giornale d’Italia. Otto anni non sono passati invano. La Cassa del Mezzogiorno ha favorito gli insediamenti industriali, la riforma agraria ha spezzato i latifondi della Sila e ha dato casa e lavoro a migliaia di contadini: “Casette variopinte sono sorte un po’ dappertutto, a gruppi di dieci o quindici, le radure un tempo adibite a pascolo vengono dissodate dagli aratri meccanici”. La miseria senza speranza che aveva amareggiato lo scrittore durante il suo primo viaggio sembra sul punto di essere medicata, se non davvero guarita: “La riforma agraria è la più grande cosa che accada nel sud da molti secoli, ossia da quando coloni greci vennero ad abitare le coste dell’Italia Meridionale”. Comincia anche a esserci un po’ di turismo, ma molto meno di quanto ce ne potrebbe essere se l’accoglienza fosse appena più professionale. I ristoranti scarseggiano, anche sulla costa, gli alberghi sono scadenti: il lettore di questi articoli di Berto è riportato a un’epoca in cui per dormire decentemente occorreva rifugiarsi nei rari “autostelli” (poi li avremmo chiamati motel) o nei campeggi, e fare benzina poteva essere un’impresa; e a un’epoca, anche, in cui comprarsi la seconda casa, come fa Berto a Capo Vaticano, desta soprattutto diffidenze e invidie tra gli autoctoni: “Intorno al mio pezzetto di terra è cresciuta una rete di curiosità, di attesa, di diffidenza. Il contadino che me l’ha venduto ora mi odia, pensando che io l’abbia defraudato. E gli altri proprietari stanno a guardare […]. A loro pare impossibile che uno che potrebbe vivere a Roma o a Milano, venga quaggiù a centinaia di chilometri di distanza, in una terra rimasta fuori da tutto, soltanto per amore di pace e di bellezza”.

 

Passa un altro decennio, Berto scrive dalla Calabria per il Resto del Carlino e il Corriere della Sera e altre testate. Molte cose sono cambiate, nella sua vita e nel paesaggio meridionale. Nel 1964 Berto ha pubblicato il suo romanzo più noto e più elogiato dai critici, Il male oscuro: ora passa a Capo Vaticano buona parte dell’anno. Quanto al paesaggio, i timidi accenni d’industria turistica hanno aperto la strada al turismo di massa. L’autostrada del Sole ha ridotto le distanze, gli emigrati tornano dalle famiglie per l’estate, il litorale si affolla di orribili casette disegnate dai geometri, uomini per i quali “l’ideale architettonico è costituito dalla pensilina tranviaria”. E, alle spalle delle casette, i primi grandi stabilimenti dell’industria pesante: il polo di Sibari, il Centro Siderurgico di Gioia Tauro, l’Italsider a Taranto.  

 

La scoperta o riscoperta del Mezzogiorno, nel secondo dopoguerra, ispira libri molto belli come Cristo si è fermato a Eboli, che esce nel 1945 e ha subito un successo impressionante; o come, un decennio più tardi, Le parrocchie di Regalpetra di Sciascia (che conversando con Gina Lagorio dirà di essere stato influenzato nella confezione del libro proprio dal modello di Levi); e su quotidiani e periodici ispira reportage che in più occasioni diventano libro: dieci anni dopo il Cristo, per esempio, Baroni e contadini di Giovanni Russo. A parte – ma non troppo discosto, poiché cambia il punto di vista ma non l’oggetto dell’indagine – stanno le missioni etnografiche di De Martino, i resoconti di Danilo Dolci in Banditi a Partinico e il fieldwork di Banfield (Le basi morali di una società arretrata: il soggiorno di Banfield è del 1955, il libro esce negli Stati Uniti nel 1958: e il Cristo di Levi è, salvo errore, l’unico libro italiano che Banfield citi, a parte Pinocchio).

 

Le pagine di Berto rientrano in questa varia famiglia di scritti di esplorazione ma hanno alcune peculiarità che le rendono specialmente degne di lettura, cioè (teniamo fermo l’obiettivo) di ristampa. Innanzitutto, la scrittura di Berto è certo più discontinua rispetto a quella di Levi o di Sciascia – si tratta pur sempre di articoli scritti per giornali, a volte giornali minori – ma la sua qualità è spesso molto alta. Questo è evidente soprattutto là dove il paesaggio offre lo spunto per brani descrittivi (in un’ideale antologia sul paesaggio meridionale non potrebbero mancare per esempio le pagine che Berto dedica a Pentadattilo: ecco la commossa asciuttezza con cui bisognerebbe sempre tradurre su carta la “poesia dei luoghi”), oppure là dove l’io narrante convoca dei testimoni e – cosa non facile entro i confini di un articolo – li fa parlare, come nel perfetto bozzetto che s’intitola Gente della Sila.

Ciò che resta impresso di queste pagine non è però tanto lo stile dello scrittore quanto il suono della sua voce. Berto era un uomo concreto, fattivo, e questo lato del suo carattere si manifesta anche nelle domande che pone ai luoghi che attraversa. Ho accennato all’interesse con cui egli guarda alla modernizzazione del Mezzogiorno, allo sviluppo del turismo e dell’industria: quando riflette, lo fa non solo intorno a ciò che vede ma anche intorno a ciò che si potrebbe fare per migliorare le cose. Il fatto è però che il suo ideale di vita era più simile a quello di Thoreau che a quello di Robinson Crusoe: del mondo naturale e umano voleva essere l’ospite, non il conquistatore. Perciò non può che guardare prima con preoccupazione e poi con amarezza al modo in cui le terre che ha imparato a conoscere e ad amare stanno cambiando aspetto: “Appena adesso, dopo dodici anni che ci vengo ogni anno, comincio a capire le viuzze e le piazzette dei borghi che mi stanno intorno e che le prime volte avevo visto notandone soprattutto la bruttezza e la miseria”. Ma adesso vuol dire ormai la fine degli anni Sessanta, quando la civiltà che ha prodotto quei borghi è ormai al tramonto: “La chiave vera del profondo Sud sta in questa contemperanza della povertà e del decoro, una sorta di equilibrio modesto, dimesso, che ha le sue radici in una civiltà contadina e che purtroppo si perde a mano a mano che gli abitanti passano, sia pure lentamente, ad altre forme di civiltà. Il profondo Sud è una terra vecchia, corrosa, geologicamente in rapido sfaldamento”.

 

Questa contraddizione tra un animus sinceramente progressista (“Bisogna cominciare da una basilare distribuzione delle terre e dei mezzi produttivi, che dia a tutti eguali possibilità di vita ed eguali possibilità di ascendere nella scala sociale”) e una vocazione alla conservazione sul piano culturale e, per così dire, estetico, affiora particolarmente negli articoli degli anni Sessanta e Settanta, quando le contraddizioni e i guasti dello sviluppo si sono ormai fatti manifesti, e le dinamiche dell’auspicata “ascesa sociale” hanno mostrato il loro rovescio: “In parecchie zone del Sud – scrive – oggi il denaro circola con piacevole abbondanza, ed è un guaio quando il denaro non è preceduto o almeno accompagnato dall’acquisto del gusto e dell’educazione”. Così il balzo in avanti nell’alfabetizzazione e nella diffusione del benessere si sconta con una certa corruzione dei costumi, e con gli sfregi all’ambiente: “E’ un fatto che la ricchezza materiale, giunta in Calabria all’improvviso e non in sufficiente misura, ha reso la regione più brutta, più inospitale, più scontenta e violenta”. 

 

Qui Berto tocca naturalmente un tema d’elezione di Pasolini. E con Pasolini, di fatto, Berto dialoga in uno degli ultimi articoli del volume, per dichiarare, una volta tanto, il suo assenso con lui: “Raramente capita che io concordi con quel che fa, o dice, Pier Paolo Pasolini, e quando capita mi rattristo, non per me naturalmente, per lui, dato che a pensarla come la penso io c’è da tirarsi addosso i rabbuffi o addirittura gli insulti degli intellettuali radical-marxisti”. L’assenso però riguarda il fenomeno osservato – i non voluti e nefasti effetti dello sviluppo consumistico – non le ragioni del fenomeno. Mentre Pasolini dà la colpa “alla volontà e opera del Potere” (il Potere, commenta Berto, “per i marxisti ha sostituito il dio degli Eserciti”), Berto non pensa a complotti ma descrive un riflesso psicologico che lui chiama “stimolo di autodistruzione”, e che più semplicemente s’identifica con l’umano desiderio di migliorare le proprie condizioni materiali: per i calabresi “la civiltà contadina è simbolo di miseria, di scarso cibo e di molte malattie, di disprezzo, vero o supposto, da parte di altre popolazioni economicamente e tecnicamente più progredite. E’ comprensibile, quindi, che essi vogliano cancellare le vestigia di tale civiltà […] e contro questo oscuro bisogno la lotta è più difficile, perché va condotta nel profondo”. Come non comprenderli? Come vietare a coloro che accedono alla modernità la loro dose di automobili, telefoni, elettrodomestici, case nuove? Ma anche: come impedire che questa trasformazione così repentina nelle forme della vita distrugga l’ambiente nel quale essa si è svolta sino ad ora, e corrompa le anime dei suoi abitanti? Agli intellettuali del pieno Novecento questo dilemma suggerisce soprattutto lamenti sull’approssimarsi di una nuova barbarie, anatemi (non solo a Pasolini; questo è per esempio Piovene in un saggio del 1973: “Oggi, il Sud si presenta come un problema disperato. Vi imperversa un’emigrazione che non trova benessere, ma dolore, sporcizia, inciviltà diverse […]; chi rimane nel Sud riceve qualche bene di consumo inutile che non educa a nulla”). 

 

Vivendoci in mezzo, Berto vede il dilemma con più chiarezza dei suoi colleghi scrittori che vivono a Roma o a Milano: non assolve i calabresi che stanno devastando la loro regione, e “d’una pompa di benzina riescono a fare un feticcio”; ma ha abbastanza esperienza di vita per capire che per apprezzare, come lui apprezza, il “dono della povertà” bisogna essersi lasciati la povertà alle spalle; e anche per sapere che della fine del mondo contadino di cui è testimone non avrebbe senso indicare colpevoli. Questa coscienza dà alle sue pagine un tono elegiaco più convincente e, se si può dire così, più giusto rispetto al Leitmotiv dell’indignazione che appesantisce i viaggi in Italia degli scrittori di quegli anni. Berto è un osservatore partecipe e dolente, ma non querulo: e possiede quel tipo di saggezza, non molto comune tra gli intellettuali, che porta a fare delle distinzioni, e tra l’altro a non adoperare i propri patemi personali come filtri o chiavi per interpretare il mondo, la storia. Le cose cambiano più in fretta di noi. “Un altro tempo ha altre vite da vivere”, dice un verso di Auden; con pena, ma anche con serena rassegnazione, è probabile che Berto avrebbe sottoscritto.  

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