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Sesso contemporaneo/9

Il piacere è fermarsi a una promessa di erotismo. Il resto deluderà comunque

Antonio Gurrado

Ormai siamo smaliziati e consapevoli di come, una volta tolte le pecette dai capezzoli, quel che ci resta son dei capezzoli qualsiasi. Una volta svelato il preludio alla perfezione, quel che ci rimane è una perfezione che non soddisfa

 

Ammetto che quando me l’hanno presentata, nell’assolato parcheggio di una palestra brianzola dove arrotondava come personal trainer, ho vacillato non solo per l’altezza e la bellezza ma perché il corpo, perfettamente rifinito da allenamento e plastica, sembrava collocarla in una specie diversa dalla mia, tale da rendere di per sé impossibile l’accoppiamento consentendo soltanto la contemplazione: un po’ come fa il babbuino, quando si siede in disparte su una roccia a osservare i maestosi animali della savana che sfilano per abbeverarsi alla pozza. Io che pure non faccio schifo, e patrocino il sesso come pratica carnale e reale, ebbene non ho voluto approfittare della sorte che, mentre passavo di lì per caso con un conoscente in comune, metteva per un attimo nella mia mano quella di una delle donne più desiderate del web; mi sono ritirato con la coda fra le gambe, facilissima metafora, a bermi una birra nel primo bar disponibile per meditare su cosa avesse castrato le mie intenzioni.

 

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Sono riuscito a rispondermi solo quando, mosso da un’inestinguibile sete di conoscenza, mi sono iscritto al suo canale OnlyFans (c’era lo sconto del 50 per cento) onde completare quel che potevo intuire dai reel e dalle stories in bikini su Instagram, dove sembrava sì alta e bella ma sant’Iddio, non così tanto. Per un mese ho goduto dunque della visione di ciò che, nel canale Telegram dedicato agli adepti, veniva presentato sotto la censura di pecette e opportune sfumature, rendendomi viscerale conto di una cosa che il cervello già sapeva: a renderla infinitamente desiderabile non era il corpo di per sé ma la promessa del corpo, ciò che io avevo intuito sotto l’esigua tenuta da palestra nel parcheggio in Brianza e che (a oggi) centotrentaquattromila seguaci su Instagram e novemila iscritti su Telegram si sforzano di intravedere nelle pieghe delle foto pubblicabili.

A renderla infinitamente desiderabile è un semplice ragionamento: se è tanto perfetta quando solleva bilancieri o quando emerge dalla piscina, quando si prepara in un resort extralusso o quando ci sfama dell’occasionale selfie allo specchio, allora a maggior ragione sarà perfetta quando, spoglia di tutto, ci dischiuderà quanto di più intimo; più che perfetta quando si darà al porno. E’ un desiderio di attingere a un vertice sempre nuovo di perfezione, che crea uno stato di continua provocazione insoddisfatta, che rende il sesso strumento di respingimento e tensione anziché di accettazione e sollievo; su questo ciclo continuo di promessa e negazione si basano ormai la tumescenza e la detumescenza universali.

E’ il principio in base a cui nel sesso contemporaneo – al tempo in cui tutto è disponibile on demand senza fatica – hanno più successo le donne a distanza che in presenza, quelle che esigono anziché quelle che concedono, quelle che dominano anziché quelle che accolgono, quelle che si fanno pagare assai per negarsi anziché quelle che magari alla fine te la danno gratis. E’ il caso della statua semovente che mi ha mandato in crisi nel parcheggio così come dell’altra mia preferita, una ventenne di Milano che si rovescia vasetti di yogurt sul viso e sui capelli, si spatascia la carbonara sulla scollatura al ristorante, affoga il muso in angurie cedevoli, rigurgita vino su vestitini da bambolotta: lo fa per suggerire al pubblico pagante l’idea che se è così casinista col cibo allora chissà che porca che è, ma a far presa è il suo essere fuori dal letto, il condiviso sottinteso che se cessasse questo teatro erotico per darsi al piacere lineare si ridurrebbe a quello che è, una ventenne come a bizzeffe se ne trovano a Milano.

 

Ormai, infatti, siamo smaliziati. Siamo consapevoli di come, una volta tolte le pecette dai capezzoli, quel che ci resta son dei capezzoli qualsiasi; una volta svelata la promessa di perfezione, quel che ci resta è una perfezione deludente. Come quel video patinato, in cui la dea della palestra entra in un albergo con l’intimo sexy sotto il cappotto, si toglie tutto con movenze da spogliarellista principiante, concede due buchi su tre a un anonimo penetratore restando imbalsamata in un’automatica inadeguatezza, facendomi rimpiangere l’intenso erotismo di quando mi era apparsa davanti per caso nel parcheggio, altera, svettante, sublime, vestita.
 

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