Un’immagine del progetto The Line, la città “lineare” che il principe saudita Bin Salman vuole costruire sul Mar Rosso (dal sito neom.com)

dove abiteremo?

Le utopie di Musk e Bin Salman: il loro sogno è far crescere le città come funghi

Fabio Bogo

Il centro per gli operai del patron di Tesla e quello per nababbi del principe saudita: è l’urbanistica del futuro? I precedenti storici lasciano dei dubbi: non basta la tecnologia per attrarre gli abitanti

Vicino alla fabbrica, la mia fabbrica, perché tu possa lavorare, felice e protetto, per me. Nel cuore della mia capitale, perché tu possa vedere e apprezzare come io costruisco il futuro per i miei residenti e per coloro che vorranno entrare nel nuovo mondo, di cui mi sento profeta. Due miliardari, due progetti per il domani del pianeta. In Texas Elon Musk vuole costruire alla periferia di Austin una città laboratorio dove occupazione e vita sociale si mescolano armoniosamente con l’ausilio della tecnologia digitale. Ci vivranno i dipendenti dell’impianto che costruisce le auto elettriche Tesla, o di altre sue iniziative industriali. In Arabia Saudita Mohammed Bin Salman, principe ereditario e guida della monarchia che galleggia sul petrolio e sulla ricchezza che ne deriva, rovescia invece del tutto le moderne tendenze urbanistiche, che vogliono riconnettere le periferie ai centri cittadini, e costruisce a suon di miliardi nel centro di Riyadh un secondo centro urbano, una capsula, un satellite dove vuole sposare, in un ambiente artificialmente incontaminato e difeso dal cambiamento climatico, la cultura, l’intrattenimento, lo shopping, il turismo: con tante case per viverci, in una realtà immersiva che farà navigare abitanti e visitatori tra ologrammi ed esperienze virtuali. Che chiuderanno il resto del pianeta fuori dalle loro porte dorate. Sia Musk sia Bin Salman hanno una visione: l’umanità è stanca e in crisi, cambiamo il modo di vivere e lavorare, rottamiamo le vecchie città e ripensiamo i concetti di urbs e civitas che hanno accompagnato la storia degli agglomerati nei secoli. Ci credono e hanno il denaro per trasformare i progetti in realtà. Vogliono che la loro utopia lasci un segno nella storia. Per urbanisti e intellettuali invece le iniziative sono soprattutto una scommessa ardita, con un forte sapore commerciale, e che rispecchia la personalità dei loro ideatori: visionari, si, ma soprattutto autocrati e autoreferenziali, mossi da interessi personali. Ma la sfida è lanciata. Sono queste le città modello del futuro?

Musk, visionario o opportunista?

Che Elon Musk sia un visionario è fuor di dubbio. Lo è nei trasporti. Con la Tesla, prima vettura nata per essere subito e solo elettrica, ha costretto i grandi produttori a inseguire. Però la Sec, l’ente federale statunitense preposto alla vigilanza delle borse, ha un conto aperto con lui: prima una multa per aver condizionato i movimenti in borsa del titolo, ora il divieto di twittare notizie sull’azienda senza la preventiva approvazione degli avvocati. Musk è un visionario anche nello spazio. Con SpaceX ha dichiarato l’obiettivo di ridurre i costi per andare oltre la terra e magari colonizzare Marte. Certo, anche qui qualche scivolata c’è stata. Sia tecnica – il suo primo super razzo Starship è esploso dopo il lancio – sia politica, con interventi contraddittori sull’uso delle sua rete di satelliti Starlink da parte dei giovani che contestano il regime degli Ayatollah (“vi appoggio”) e da parte dell’esercito ucraino (“i miei satelliti non fanno la guerra”). Luci e ombre anche sulla rete. Compra Twitter per 44 miliardi per farne il simbolo della libertà di espressione e per “aiutare il futuro della civilizzazione”, ma vuole riammettere Trump scordandosi di come Twitter sia stato usato per l’assalto al Campidoglio, e fa capire che la libertà conta ma forse i soldi di più: drastici licenziamenti (6.500 impiegati su 8.000), cambio di manager e “spunta blu” a pagamento per chi vuole la verifica del suo account. L’ultima visione del magnate sudafricano però adesso è l’urbanistica. E si chiama Snailbrook.

L’utopia del magnate

Il progetto lo ha rivelato il Wall Street Journal. Musk ha comprato diversi acri di terreno nella contea di Bastrop, alla periferia di Austin, capitale del Texas, terra delle sue industrie: c’è Tesla e c’è Boring, una società specializzata nella costruzione di tunnel. A Snailbrook (il nome deriva dalla lumaca simbolo della Boring) abiteranno 110 famiglie, che pagheranno in media un affitto di 800 dollari al mese, molto meno dei prezzi di mercato correnti, per appartamenti di due o tre stanze. La città metterà a disposizione una piscina, delle aree gioco per i bambini, impianti sportivi. Dal suo punto di vista Snailbrook sarà un paradiso funzionale a poca distanza dal fiume Colorado. E soprattutto dalla fabbrica. Niente lunghi spostamenti per andare al lavoro e tanti servizi (ci sarà anche una scuola).

L’ingresso di Snailbrook, la città che Elon Musk sta progettando per alloggiare i suoi dipendenti (Getty)

La comunità locale ha molte riserve sull’iniziativa: Musk, come vicino di casa, è piuttosto ingombrante. E non è di buon auspicio il cartello che annuncia l’ingresso a Snailbrook, un mezzo arco di ferro che a qualcuno  ha fatto venire in mente una miniera, e ad altri il ricordo di qualcosa di ben più tragico. Molte perplessità sono state avanzate dai grandi media americani. Il New York Times ha stroncato l’iniziativa di costruire città per le comunità dei propri lavoratori, con case in affitto (e Musk in caso di dimissioni le rivuole indietro entro 30 giorni): “Non è la  prima volta che le industrie americane costruiscono insediamenti per i propri dipendenti  – ha scritto l’editorialista Binyamin Appelbaum – in questo modo sperano di attrarre i lavoratori. E di controllarli. Perché è difficile contrastare un padrone pensando che se lasci il lavoro lasci anche la casa  a buon mercato che ti ha dato”. L’utopia delle città realizzate dai capitalisti è stata più diffusa di quanto si pensi. Ma di durata piuttosto breve. “Le città nascono e crescono e si sviluppano laddove ci sono risorse per farle prosperare – spiega Giovanni Semi, docente di Urbanistica all’Università di Torino e autore del libro “Gentrification, tutte le città come Disneyland?” – e spesso seguendo le rivoluzioni tecnologiche: molte sono nate attorno ai fiumi quando si è scoperto che l’acqua con il vapore era una fonte di energia. Ma è diverso il discorso se questa tendenza funzionale deterministica si piega alla volontà di potenza degli autocrati. Sogni urbani di autocrati ne conosciamo tanti, ma che si realizzino o restino stabili resta una scommessa o solo una fantasia”. Spesso le dichiarazioni roboanti di progetti che cambiano la vita sociale nascondono meri interessi commerciali.

Henry Ford e la rivincita della giungla

La storia parla chiaro, anche per illustri predecessori di Musk. Uno fu addirittura Henry Ford. Per liberarsi dal monopolio britannico della gomma, il padre dell’industria automobilistica americana nel 1928 acquistò 250 mila ettari di giungla brasiliana, dove far nascere una città, Fordland, per ospitare i lavoratori che avrebbero curato gli alberi da lattice da cui trarre il materiale per gli pneumatici delle sue macchine. Nel villaggio riservato agli americani c’erano ospedali, sale da ballo, anche un campo da golf. Per i brasiliani divieto di alcol ma hamburger (non troppo graditi) a volontà. Il sogno del rivoluzionario Ford, precursore della globalizzazione e sensibile alle questioni salariali, si infranse contro le troppo frequenti malattie degli alberi della gomma: l’iniziativa economica non diede mai i frutti sperati e nel 1945 Fordlandia chiuse i battenti, con una perdita di 20 milioni di dollari. “Spesso il sogno dell’autocrate è l’incubo del destinatario, delle popolazioni – dice Semi – e non ha futuro. La città nasce perché la gente desidera stare lì. L’urbanizzazione è la storia della forza attrattiva, della seduzione che le città esercitano”. Se non c’è seduzione non si va a vivere e lavorare volentieri, e Fordlandia non era attraente. E così oggi la giungla se l’è ripresa quasi tutta.

Quando ci provò Topolino

Un altro sconfitto nella sua utopia fu Walt Disney. Epcot, oggi uno dei parchi più iconici della Disney, dedicato alla celebrazione della tecnologia, era nato per essere una città. Walt Disney, già alla testa di un impero mondiale dell’intrattenimento, aveva un sogno: lasciare un’eredità al mondo. E così pensò di realizzare una città perfetta, seguendo i canoni che aveva introdotto nei suoi parchi. Epcot è l’acronimo di Experimental Prototype Community of Tomorrow, parole che già spiegano tutto. Un centro urbano programmato meticolosamente e tecnologicamente avanzato, un sistema di trasporti  su monorotaia, lavoro per tutti, aree verdi e tempo libero per lo shopping nel centro commerciale. Aveva anche un’altra particolarità. Non doveva mai essere completata, ma cambiare e migliorarsi sempre. Disney morì prima di vedere il suo sogno realizzarsi, e i suoi successori lo cancellarono. Perché erano convinti che Disney commettesse un grave errore: non lasciare libertà agli abitanti. A Epcot le case non sarebbero state di proprietà di chi le abitava, i residenti non potevano votare. Il controllo era totale (era previsto che all’insaputa di chi era al lavoro potevano essere installate nelle abitazioni nuove apparecchiature tecnologiche.) Licenziarsi era proibito, si perdeva la casa in un attimo e si finiva in strada. Un sacrilegio nella nazione dove la libertà è sacra. Epcot non fu mai una città. Ma, sfruttando la genialità urbanistica di Disney, diventò quello che forse doveva essere da subito, senza retorica: un parco divertimenti.

Ford e Disney hanno fallito. Può riuscirci Musk? Paolo Desideri, architetto di fama e docente universitario a Roma Tre, si impegna da una vita nello studio delle forme di aggregazione metropolitana e della trasformazione del moderno delle economie postindustriali. Sul progetto Snailbrook è tagliente. “Musk – dice – tratta il territorio terrestre come se fosse Marte, o come se fossimo tornati indietro agli anni 30. Ma queste idee  sono già state contraddette dalla realtà dei fatti: le città non vanno più nella direzione del determinismo modernista. Musk urbanista disegna un futuro che sembra consegnarci a un passato che assomiglia a quello dell’Unione sovietica, dove si sviluppavano agglomerati sempre più densi e sempre più tetri”. Il tratto comune che vede Desideri con il passato è quello degli abitanti, che sono i suoi lavoratori, la sua proprietà. “Si porta la forza lavoro della fabbrica in casa propria – dice – così ogni mattina l’operaio o il tecnico escono dall’abitazione con la chiave a stella in tasca. Non sono case, sono unità produttive. Lo abbiamo fatto, sbagliando, anche noi in Italia. Pensiamo a Corviale a Roma, un grande serbatoio abitativo per le masse lavoratrici che venivano allocate attorno alle piccole fabbriche. Grande sinergia con l’industria, ma un’edilizia sociale che conviene soprattutto al capitale”. Insomma Musk “è preda di un sogno deformato”, secondo la definizione di Giovanni Semi, un desiderio “probabilmente frutto di una megalomania di fondo: non una positiva utopia, ma al contrario una distopia”, che prefigura un futuro oppressivo per chi lo subisce.

Città satellite artificiali imposte dall’alto, quindi. Niente a che vedere con il modello di “rammendo e rigenerazione urbana” teorizzato da Renzo Piano, che nella sua visione di rinascimento, cucita sulle esperienze italiane ed europee, chiedeva più sostenibilità e di non allargare ancora le città con nuove periferie, di non aggiungere altre aggregazioni monofunzionali. “L’economia stessa della terra, di tutti i paesi – è l’analisi di Piano – ha deciso che non si possono continuare a fare nuove periferie”.

Le utopie italiane, tra ambiente e cemento

Anche in Italia non sono mancati imprenditori che volevano lasciare un segno con la propria visione urbanistica e sociale. Lo ha fatto, con successo, Enrico Mattei con il villaggio Eni a Borca di Cadore. Edoardo Gellner e Carlo Scarpa progettarono nel 1954 un complesso di 100.000 metri quadri destinato ai dipendenti del cane a sei zampe (270 villette), che ancora oggi è guardato con ammirazione. L’idea era quella di prendersi cura del lavoratore non solo sul luogo di lavoro ma anche nel tempo libero delle ferie. Esperimento perfettamente riuscito per l’equilibrio delle unità abitative e la concezione della socialità. Ma era un villaggio per il riposo, e non una città.

Meno fortuna ha avuto invece Zingonia, che invece voleva proprio essere una città. In provincia di Bergamo, è costruita nella seconda metà degli anni 60 come realizzazione di un progetto urbano concepito dall’imprenditore Renzo Zingone. Anche qui l’ispirazione è quella che oggi entusiasma Musk: centro urbano razionale autosufficiente, fornito di servizi, vicino a un’area per i capannoni degli imprenditori per evitare il pendolarismo. Zingone ne parlava così: “Un comprensorio agricolo di modesto rendimento si sta trasformando in una città operosa con prospettive di sviluppo sempre più promettenti”. Non andrà così. La crisi petrolifera del 1973 si abbatte sui progetti e sui finanziamenti, i comuni limitrofi litigano, molte opere restano sulla carta. La popolazione, inizialmente stimata in 50 mila unità, arriva a stento a mille. Zingonia non decolla: il suo ideatore cede tutto a un’altra società, e va a curare i suoi interessi in Centroamerica, assieme alla moglie Donatella (che rimasta vedova sposerà l’ex premier Lamberto Dini). Oggi di quel progetto rimangono poche cose di rilievo: l’ospedale, controllato dal gruppo San Donato, e il centro sportivo dell’Atalanta. Tante aree sono degradate, diffusa la criminalità.

Meglio è andata per il villaggio Solvay di Rosignano, provincia di Livorno. Lì la società chimica belga, assorbito uno spirito europeo sempre più aperto ai miglioramenti sociali della popolazione, decise di realizzare una città giardino per i propri dipendenti. Ma lo fece trovando una efficace collaborazione con le istituzioni locali e un virtuoso rapporto tra architettura e natura. La società favorì l’acquisto delle abitazioni da parte dei suoi operai e dirigenti (evitando così di subordinarli  alle case date in affitto), e oggi è parte integrante del comune di Rosignano: come direbbe Renzo Piano, rammendo e ricucitura del territorio. Così va bene? “Sì – dice Desideri – perché il concetto di città indica due cose ben distinte: la urbs, cioè l’elemento fisico, e la civitas, la società civile. E la civitas oggi è territorio inteso in senso esteso, con dentro l’urbs. In Italia la pianura padana non è una città ma in realtà è una città-territorio grazie alle infrastrutture, una città diffusa. Non c’è bisogno oggi di fondare nuovi insediamenti”.

Il flop urbanistico di Google

Non erano convinti di questo ad Alphabet, capogruppo di Google, che a Toronto aveva preso una strada diversa. Costruire una cosa nuova. Con l’intenzione di rivitalizzare il waterfront della città canadese sul lago Ontario, i manager di Mountain View volevano una città futuristica e governata dalla tecnologia e dalla gestione dei dati. Con una ferrovia leggera, 2.500 abitazioni assegnate a un prezzo inferiore del 40 per cento a quello di mercato, una fabbrica di lavorazione del legname capace di generare quattromila posti di lavoro. Dopo vari ritardi, il progetto della smart city è stato abbandonato nel 2020, giustificando il ritiro con le mutate condizioni economiche. “In realtà – dice Giovanni Semi – è abortito per la forte opposizione degli abitanti, con istruzione medio alta e consapevoli dei propri diritti. Quando hanno realizzato che alle domande ‘Cosa farete dei dati che raccoglierete da noi? Che tutela della privacy ci garantite?’ Alphabet non sapeva o voleva rispondere, la gente si è messa di traverso e ha fatto collassare il progetto. Le città fortezza, siano smart o meno, non funzionano, non si collocano forzatamente gli abitanti”. E’ d’accordo Desideri. “La realtà è che il modello urbanistico che ha l’urbs come centralità è definitivamente cancellato, non ha senso riproporlo nel mondo occidentale. Negli anni 50 si pensava che le città dovessero essere più tecnologiche, più concentrate, più alte. Un errore. Il modello piuttosto efficiente è quello di Los Angeles, una città diffusa resa possibile dalle tecnologie, dalla Rete, dai trasporti, dal commercio elettronico”.

La visione del petrolio

Servono insomma riconquiste volontarie degli spazi collettivi, aiutate dalle infrastrutture, e non delle città fortezza create da interessi privati. Non la pensa così, dall’altro lato del pianeta rispetto al Texas, Mohammed Bin Salman, Mbs come ormai lo chiamano tutti. Anche lui è un visionario e un decisionista con mezzi economici immensi e metodi che definire spicci è un eufemismo. La Cia lo ritiene il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente Khamal Khashoggi a Istanbul nell’ottobre del 2018. Ispirandosi forse a Lorenzo de Medici, ha portato a Riyadh consulenti e politici per dare lustro alle suo visioni: la principale è il progetto Neom all’interno di Saudi Vision 2030, la fondazione di una città a nord del Mar Rosso, a poca distanza dal confine giordano: 500 miliardi di dollari il costo, totalmente alimentata da energia rinnovabile, con zona economica annessa. Le persone abiteranno The Line, una città lineare lunga 170 chilometri e larga 200 metri, senza auto, con tutti i servizi distanti 5 minuti a piedi. E in ultimo, fiore all’occhiello della sua visione urbanistica, ha lanciato una nuova icona architettonica. Il progetto si chiama New Murabba, sorgerà nella zona Nord-ovest di Riyadh e per Mbs sarà “il più grande centro moderno del mondo”. I numeri: 104 mila unità abitative, 9 mila camere di albergo, 980 mila metri quadri di spazi commerciali, 1,4 milioni di metri quadri di uffici. Oltre a musei e polo universitario. Il tutto entro 15 minuti a piedi. Al suo interno la meraviglia delle meraviglie, il Mukaab. Potenziale nuovo simbolo della capitale vuole essere una delle più grandi strutture al mondo, capace di contenere 20 esemplari dell’Empire State Building di New York. E sempre in tema di primati, il fondo statale che lo progetta annuncia che sarà “la prima destinazione immersiva al mondo che offrirà un’esperienza creata dalla tecnologia digitale e virtuale con gli ultimi ologrammi”. La forma di quella che definiscono anche “la porta di accesso per un altro mondo” sarà quella di un cubo, ovviamente dorato; e al suo interno una cupola che contiene il magico ambiente progettato.

“Il cubo dorato di Riyadh – spiega Giovanni Semi – è una città per miliardari, una sorta di Avatar dove non devi avere, come in quella di Musk, la chiave inglese in tasca: quella la porterà la miriade di persone che lavoreranno nei servizi”. I quali non beneficeranno dei vantaggi della città dei 15 minuti, perché certo non potranno viverci per ragione di costi: si creeranno così nuovi pendolari. Per Semi il New Murabba è un’amplificazione del modello Dubai. “Una città finta, che non ha nessuna funzione se non quella speculativa. Dubai è stata costruita sul nulla e sta in piedi perché autoproduce rendita fondiaria. Quel tipo di insediamento prospera sul fatto che deve essere in continua costruzione e che profitta di doping fiscale. Un sistema simile a quello delle piramidi finanziarie albanesi. In Arabia Saudita accade lo stesso: si investono capitali nell’edilizia per avere un ritorno per gli investitori. Ma siamo sicuri che la gente ci voglia vivere? Oggi in realtà i grandi flussi dei ricchi sono improntati alla mobilità verso più località: il porto del proprio yacht, l’attico a Manhattan, la casa sulle Alpi: dubito che vorrebbero restare chiusi nella città di Bin Salman. Magari ci passano un weekend, come si farebbe a Eurodisney. Quindi chiamiamo queste iniziative con il loro nome: parchi a tema”.

Paolo Desideri pensa alle immagini e ai filmati del Mukaab e scuote la testa. “Una nicchia di mercato – spiega – ma non certo un modello, una soluzione per il futuro del mondo. L’architettura vive di utopie , senza quelle non potrebbe esistere. Ma il Mukaab è come Dubai, una sorta di Gotham City, che nasce perché il supercapitalismo oggi può realizzare i suoi ideali come se avesse una stampante a 3D, metti dentro l’utopia e la macchina te la realizza. Così nascono delle Disneyland spacciate per città, in cui si paga un biglietto molto salato. Il costo del metro quadro a Dubai è in ragione diretta della distanza dal centro della terra, che è il Burj al Khalifa, il grattacielo più alto del mondo. Che sta al centro di una sorta di Central Park artificiale, dove una fontana grande quanto il lago Michigan spara ogni 45 minuti un getto d’acqua. E che è vicino a centri commerciali con piscine dove tuffatori finti si lanciano nell’acqua vera. Il segreto di queste nicchie di mercato è confondere il confine tra ciò che è reale e ciò che è finto”. E l’altro grande incentivo per attirare compratori e residenti è quello di definirle sostenibili per l’ambiente. Ancora Desideri: “Ma avete idea di quante emissioni si sono fatte per costruire queste utopie di pietra? E di quanto tempo ci vorrà per assorbirle?”.

Il tempo dirà se queste opere verranno realizzate (la saudita Neom sta subendo rallentamenti) e se diventeranno un modello da imitare nel mondo occidentale, che affronta la sfida della crescita demografica asiatica e africana e dell’urbanizzazione planetaria. I capitalisti-visionari intanto vanno avanti. Con qualche sorpresa, però. Circolano voci, non confermate ma riportate dai media locali, che il colonizzatore dello spazio Elon Musk sarebbe rimasto impressionato da una visita sulle Dolomiti, e che avrebbe intenzione di costruire una casa a San Cassiano, in val Badia. Il sindaco dice di non saperne nulla, ma ammette che l’idea non gli dispiacerebbe. Insomma, Musk costruisce una città artificiale perfetta per i suoi dipendenti. La sua però la cerca nella tradizione e nella natura dell’Alto Adige. Qualcosa non torna…