Il prete, il medico e Mastroianni. Il mito ripetitivo del maschio incinto

Guido Vitiello

Da un emoji inclusivo al cinema, fino al medioevo. Una catena di déjà-vu

Ripetitiva com’è l’umanità nelle sue fantasie, non c’è nulla di così insolito che non possa far lampeggiare nel buio della mente il bengala di un déjà-vu, o – come in questo caso – un tric-trac pirotecnico di déjà-vu concatenati. Quando sul mio iPhone, nella primavera dell’anno scorso, fece capolino l’emoji inclusivo dell’uomo incinto, sapevo di aver già visto da qualche parte quell’immagine, ma non ricordavo dove. Senz’altro l’avevo avvistata su una copertina dell’Espresso del maggio 2021 disegnata da Fumettibrutti in cui una sagoma barbuta si reggeva tra le mani, sotto le cicatrici di una doppia mastectomia, un pancione con la scritta “La diversità è ricchezza”. D’accordo, ma prima? Dove mi ci ero imbattuto? Ma certo, doveva essere in quella commedia del 1994 con Arnold Schwarzenegger, “Junior”, in cui lui si impiantava un ovulo fecondato per testare l’efficacia di un farmaco sperimentale. Eureka! Eppure gli scoppi luminosi dei déjà-vu non accennavano a fermarsi. 


Così mi sono ricordato di un altro film, una di quelle distopie erotico-fantascientifiche in voga negli anni Settanta (da noi il miglior fabbro è stato Pasquale Festa Campanile): “Niente di grave, suo marito è incinto” di Jacques Demy, girato nel 1972, quando la moglie Agnès Varda aspettava un bambino e l’attrice protagonista Catherine Deneuve una bambina. Quanto al marito incinto del titolo, era un buffissimo Marcello Mastroianni nel ruolo dell’insegnante di guida Marco Mazetti, che campeggiava sulla locandina con una salopette abbondante per dare spazio al pancione. Non era chiaro come Mazetti fosse rimasto incinto, e se la sua fosse una vera gravidanza o una specie di gonfiore isterico (il film, peraltro, aveva due diversi finali in totale contraddizione, uno per l’edizione francese e l’altro per quella italiana). Forse era stata la sua dieta a base di pollo imbottito di ormoni, forse era stata chissà come la moglie, forse era in atto una mutazione biologica della specie umana; fatto sta che l’eco del suo caso inedito scatenava un contagio sociale di maschi gravidi, imponeva l’invenzione di un nuovo linguaggio e di una nuova linea di moda prenatale maschile, spingeva un gruppo di preti irlandesi a chiedere al vescovo il permesso di inseminarsi artificialmente, suscitava dibattiti tra scienziati, ostetriche, uomini di chiesa, giornalisti. Alla moglie del puerpero – una parrucchiera interpretata dalla Deneuve – il conduttore di uno show televisivo chiedeva il punto di vista femminile sulla faccenda, e lei rispondeva: “Si può dire porca vacca? Nel senso di porca la miseriaccia zozza. Ma qui dove andiamo a finire? Noi lottiamo per l’uguaglianza della donna, mica per l’uguaglianza dell’uomo, scusi: così ci hanno fregato un’altra volta!”. Seguiva una disquisizione – che all’epoca era materia da commedia surreale, oggi è lo spunto per seriosissime pièce che vanno in scena al Globe Theatre – sul vero genere di quel maschiaccio di Giovanna d’Arco. 

 
Ed è a questo punto che mi è baluginato nella mente un altro déjà-vu, proveniente da un passato ancora più remoto: prima della locandina del film di Demy, avevo visto infatti un’illustrazione medievale in tutto analoga sulla copertina di un libro dello storico Roberto Zapperi, “L’uomo incinto. La donna, l’uomo e il potere” (Lerici, 1979), che rintracciava le antichissime origini folkloriche e letterarie di questo motivo mitologico e poi lo scortava passo passo per tutti i secoli del Cristianesimo, segnati da quello che Zapperi chiamava “compromesso androgino”. Se nelle religioni dei popoli germanici, infatti, le donne avevano ricoperto ruoli sacerdotali, il Cristianesimo le sospinse ai margini creando la figura del prete come “uomo-donna” che rinuncia alla potenza virile in cambio dell’appropriazione di alcune facoltà femminili. Non a caso le favole popolari sull’uomo incinto hanno spesso al centro un monaco o un prete (come gli irlandesi del film di Demy), che s’illude di vivere una gravidanza perché ha ingerito inconsapevolmente qualcosa (non i polli di Mastroianni: per lo più scarabei o altri insetti ripugnanti), lo partorisce dall’unico foro d’uscita che ha a disposizione e viene infine deriso da una donna. Questa ritorsione femminile era, secondo Zapperi, una delle funzioni assolte dal motivo folklorico dell’uomo incinto: “E’ la donna che irride e schernisce il prete nella sua assurda pretesa di defraudarla simbolicamente persino della prerogativa della procreazione”. Oggi le donne di quelle storielle, così come la parrucchiera del film di Demy, sarebbero probabilmente additate con l’epiteto di Terf, che nel folklore contemporaneo è l’equivalente di strega. 


Uno dei passi del libro di Zapperi che più risuonano con il dibattito contemporaneo riguarda i rapporti di questa tradizione mitologica con la storia della medicina: “Tanto forte è infatti il desiderio maschile di defraudare la donna della facoltà della procreazione da affiorare nella sede più insospettabile, in quella stessa medicina accademica che si garantisce uno statuto scientifico nel rifiuto costante e rigoroso di ogni sollecitazione mitologica”. Che beffa! Venuta meno l’autorità simbolica del prete, a espropriare la donna della sua facoltà esclusiva di partorire è un altro maschio, il medico. Per le propaggini scientifiche di questo motivo mitologico, tuttavia, sarà meglio sfruttare l’ultimo déjà-vu e affidarsi a uno storico della medicina, Pierre Darmon, che in un libro di quegli stessi anni, Le mythe de la procréation è l’âge baroque (Seuil, 1977), si dedicava tra le altre cose alle gravidanze maschili e alle intricatissime teorie pseudoscientifiche che i medici dell’età barocca erano pronti a sostenere pur di non ammettere che la gravidanza era affare solo femminile. L’antico tema folklorico, insomma, abbandonata la tonaca, si arrabattò a sopravvivere il più a lungo possibile acquattato sotto un camice. Dopodiché, dice Darmon, la musica cambia, e dalla fine dell’Ottocento a nessuno sarà più consentito di ignorare le leggi della natura: “La verità uscirà infine dal pozzo, ma ne uscirà tutta spoglia, liberata sì dagli oscurantismi ma anche da un lirismo molto gioioso e da quelle impennate così poetiche”… Se non fosse che l’umanità è spaventosamente ripetitiva, e seguendo l’ansa a gomito di un nuovo vicus of recirculation ci siamo ritrovati – oplà – nell’età neobarocca.