La protesta all'esterno dell'Università Sapienza contro il caro affitti (Ansa)

Un punto di vista sentimentale

Di tende e studenti. Consigli per trasformare un guaio in un'opportunità di crescita

Alberto Mattioli

Del caro affitti si lamentavano già quelli dell’Aquinate. La bohème studentesca è un rito di passaggio anche formativo: le soluzioni ci sono e nessun fuori sede è mai andato fuori di testa per qualche lavoretto arrotondante

Tutti in tenda appassionatamente. Davanti alle università di tutta Italia spuntano canadesi come funghi, i giornali scoprono il già noto con paginate accorate, gli indignati speciali pontificano, si mobilitano sindaci, rettori, sindacalisti, ministri, opinionisti, aspettando come per ogni sciagura nazionale, ovvio, i soldi del Pnrr che ricordano sempre più sinistramente l’araba fenice di Metastasio, quella “che ci sia ciascun lo dice / dove sia nessun lo sa”. Anche oggi ci è stata data la nostra emergenza quotidiana: stavolta sono gli appartamenti per gli studenti universitari, mai così pochi e mai così cari. Il problema naturalmente esiste (ed è facile prevedere che resiste, in Italia nulla è più permanente dell’emergenza), anche se a ricollocarlo nella sua giusta misura, numeri alla mano, ha già provveduto Maurizio Crippa, due giorni fa, sul giornale che state tenendo in mano.

 

Qui si vorrebbe invece considerare la questione da un punto di vista, diciamo così, sentimentale. Non serve scomodare Murger per interposto Puccini per sapere che la bohème studentesca è un rito di passaggio anche formativo e che verrà ricordata con nostalgia dagli stessi che oggi se ne lamentano. Del resto, abolito il servizio militare, trasformati esami già terrificanti tipo la maturità in comparsate seguite da promozioni quasi totalitarie, l’esperienza da fuori sede rimane uno dei pochi capitoli ancora inevitabili nel Bildungsroman di ciascuno (a parte ovviamente quelli che fanno l’università nella loro città, e possono restare serenamente bamboccioni fino alla laurea). Posto che comunque non è indispensabile abitare a portata di passeggiata dall’ateneo, e che un po’ di pendolarismo, Trenord a parte, non ha mai ammazzato nessuno, alzi la mano chi non è mai passato dalla trafila della ricerca matta e disperatissima di un loculo purchessia, della convivenza ancora più matta e divertentissima con dei perfetti sconosciuti che subito si desidera che tali fossero rimasti, della camera a due letti (a me ne toccò una a tre, in via Zamboni quasi con vista sull’Alma Nater, ma per fortuna non capitava mai che fossero tutti occupati), dei turni delle pulizie del bagno, dei ripiani del frigorifero più lottizzati di un tiggì Rai, e chi ha fregato per l’ennesima volta la coca (cola, precisiamo)? E dire che ai nostri tempi non c’era nemmeno Santa Ikea per le indispensabili migliorie low cost. La prima Billy non si scorda mai, e di solito è entrata nelle nostre vite fra un esame e l’altro. 

 

Pare che del caro affitti per le topaie da studenti si lamentassero già quelli dell’Aquinate. Nihil sub sole novum. Da sempre, a Bologna o a Pavia, le bacheche più seguite non sono quelle degli appelli ma del tumultuoso mercato dell’alloggio, già tutta una lezione di economia politica, la legge della domanda e dell’offerta, you know? Sistemazioni in ogni caso precarie, dunque perfettamente propedeutiche al precariato prossimo venturo. E in ogni caso, se i soldi scarseggiano, e prima del pezzo di carta scarseggiano sempre (ma anche dopo, in effetti), le biografie di uomini e donne illustri, quelli che ce l’hanno fatto partendo da zero, sono lì a suggerire soluzioni da studenti-lavoratori, part-time come baristi o cubiste (o viceversa), lavoretti arrotondanti, prestazioni occasionali, fino all’horror del rider. Nessun fuori sede è mai andato fuori di testa per questo. Al massimo, fa un po’ di campeggio sognando lo studentato o le provvidenze prossime venture dei pubblici poteri, che magari ci proveranno pure. Wishful thinking, insomma, la cui tradizione più giusta, però, è “pia illusione”.

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