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Il Foglio del weekend

Il trash è uscito dalla tv e vive e lotta dentro noi

Michele Masneri e Andrea Minuz

La sua epica è su Instagram. I personaggi, le scene, i riti. Persino il documentario, da esercizio divino, è diventato un palinsesto burino. Milano insegue ma la capitale resta Napoli. Anatomia di un fenomeno globale

Ah, il caro vecchio “trash”, così raro quando se ne cercava una definizione – quella di Tommaso Labranca, autore di “Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash” (1994), era quella di “emulazione fallita di un modello alto”, il Teomondo Scrofalo per il quadro d’autore, la tv dei Tarallos per i film di Hollywood, ma erano epoche di televendite ingenue e selvagge, era un mondo ancora diviso in classi e in palinsesti. E lì il trash si collocava, tra Pantigliate, località già dal nome poco glamour in cui Labranca aveva posto il domicilio, e luoghi “off”. Mai si sarebbe pensato che il trash sarebbe diventato predominante, anzi, abbarbicato come l’edera ai piani della cultura media o alta o bassa, come oggi. Così, dal processo del secolo, “Heard contro Depp”, che pare una casa Vianello ultra trash di due tossiconi che si accusano di nefandezze (tu hai fatto la cacca lì, tu stai sempre embriaco, tu sei una ladra, tu sei un fallito), allo sfavillante streaming di “Mucho mas”, la saga sull’influencer bolognese Gianluca Vacchi, con vertenza dei colf filippini vessati su TikTok, è chiaro che il trash ha fatto un salto di specie.

  

AM: Negli anni Novanta erano considerati trash il videomessaggio della discesa in campo del Cav. e il karaoke di Forza Italia, o i programmi di Maria De Filippi. Oggi tutta la comunicazione politica è trash, mentre il trash in tv non funziona più. Crollano uno dopo l’altro anche gli ultimi format (malissimo “La pupa e il secchione”, i cloni di “Temptation Island” o il “Big Show” di Enrico Papi su Canale 5). Colpa della guerra? Macché. Casomai è il trash che nel frattempo è diventato “emulazione” della vita stessa, condizione umana, pura tautologia. Il trash è ovunque. Non ci facciamo neanche più caso. Perché vederlo in tv?

MM: Stiamo assistendo insomma alla grande mutazione del trash che un tempo era “povero” e generalista, si pensava non avrebbe mai avuto accesso alle “piattaforme” dove invece alligna e fiorisce. Il trash oggi è interclassista, parte dal “Grande Fratello” e “Isole dei famosi” vari, e arriva alle vette culturali di Amazon Prime e di YouTube.

AM: Perché è l’unica estetica condivisa che funziona a livello globale. E qui gli ultimi vent’anni sono stati decisivi per annullare le poche barriere rimaste. La tv defilippica, i primi reality e Barbara D’Urso chiudevano i conti col vecchio “gossip” (che oggi sembra un termine da Scuola di Francoforte) e spalancancavano le porte del trash. Non il trash di “nicchia”, da tv locale e détournement surrealista, à la Labranca. Ma un trash burino, trasparente, democratico, noioso. Ecco il salto di specie: dalle Kardashian a “Gomorra”, dall’interior design della Trump Tower al salon de coiffeur di “Federico Fashion Style” ad Anzio, uno “stile internazionale” si è fatto Spirito-del-tempo. L’unico capace di tenere insieme il borgataro e il miliardario, il rapper, il trapper, la fisioterapista e l’impiegato al comune. Trash non più come stonatura, eccesso, sberleffo o sfida al “buon gusto” (ma quale?), bensì cultura dominante e new normal che trova su Instagram la sua epica. 

MM: Assistiamo, per esempio, al grande documentario non sul trash, ma trash: il settore più elitario, “alto”, colto appunto, il “documentario”, parola che uno legherebbe a Richard Attenborough, National Geographic, a Werner Herzog, al limite anche Michael Moore, diventa palinsesto burino. 

AM: Certo. La burinificazione del documentario, liberato anche dal cascame della denuncia, della riflessione, dell’impegno civile. A suo modo, una grande rivoluzione culturale: un “cinéma du réel” travolto dal trash, per vivificare gli zombi di Cannes, Berlino, Venezia. Del resto già vent’anni fa, col primo “Grande Fratello”, si scomodavano il “neorealismo” e i pescatori di Visconti.

MM: Cioè se da una parte i programmi percepiti trash vengono tolti dalle generaliste (la D’Urso, per esempio, assorta magari esageratamente a simbolo del trash, colpirne una per educarne cento) non ci si stupirebbe un documentario sulla D’Urso. Senza nessuna chiave critica, perché il documentario spesso è autoprodotto e autocelebrativo, dunque diventa uno squisito manufatto kitsch. Diventa monumentalizzazione della propria vita, e qui naturalmente non si può non citare – lei che è sempre avanti – l’“Unposted” di Chiara Ferragni, uscito tre anni fa (che sembrano trenta).  Di questo passo, si potrebbero anche prevedere una serie di documentari, a partire da “Il Diavolo veste Elisabetta Franchi”, per un’incursione-verità nel mondo della moda carpigiana (Orso d’oro a Berlino 2023). 

AM: La perversione del farsi-i-documentari-addosso, anziché aspettare come  usava una volta il tributo postumo. O ancora, sul versante libresco, la precoce “meridianizzazione” ormai alla portata di tutti, spiegano forse la peculiare ossessione del nostro tempo per le statue. 
 
MM: Così per esempio sarà meno trash la statua di Gianluca Vacchi, “finta”, nata a scopi promozionali, in piazza XXV aprile a Milano, o quella tragicamente vera di Indro Montanelli agli omonimi giardini, o quella erigenda per Margherita Hack? E che senso avrà costruire – seriamente, senza un filo di ironia – una statua nel Ventunesimo secolo (l’unica funzione storicamente accettabile essendo quella di imbrattarla)? La statua che verrà issata a giorni a Milano dedicata all’astrofisica è dell’artista bolognese Sissi, che ha vinto una gara, e si chiama “Sguardo fisico”: l’accademica toscana emerge come da un vortice per osservare le galassie. Tiene le mani in alto come a stringere un cannocchiale, strizzando un occhio con la bocca semi aperta, come si faceva da piccoli coi tubi dello Scottex, e nel render la figura sembra ancora più assurda perché il telescopio verrà aggiunto dopo. Qui il trash sconfina nel kitsch, cioè come operazione estetica di basso livello per appagare pretese di artisticità delle masse. Ma oggi assistiamo a un proliferare di statue urbane, generalmente di bronzo, che spuntano da angoli urbani senza preavviso… La statua di Mike Bongiorno a Sanremo, a Trieste Svevo, Joyce, Saba, a Gorizia Carlo Michelstaedter… tutti bronzei e iperrealisti, tipo statua della mamma del megadirettore in Fantozzi, a cui gli impiegati devono rivolgere un deferente saluto aziendale. Chi viaggia oggi nella bella penisola scopre statue che si ergono come pietre d’inciampo, che sembrano tutte il Michael Jackson di Jeff Koons – uno scherzo sul kitsch – ma sono serissime, e prolificano, anche di personaggi tutto sommato minori e locali (la statua come nuova arena e spazio pubblico della fantasia degli amministratori locali; la statua è la nuova rotonda?). Anche lì, assistiamo a uno spostamento: la statua è diventata il vecchio nano da giardino, ma il giardino non è più quello privato, è quello pubblico. 
AM: Ma qui saremo nel trash o nel kitsch? 
MM: Bella domanda. Il kitsch sarebbe l’arte percepita “alta” per le masse, fatta in replica. Il trash, appunto, l’imitazione sgangherata e non riuscita. E allora come giudicare nuovi fenomeni come ad esempio il gender reveal, cioè la rivelazione del sesso di neonati/e, nuovo format importato dagli Stati Uniti e di enorme successo in Italia (come te sbagli), che diventa festa trimalcionica tanto più coatta e complicata quanto più il money di famiglia è abbondante, sostituendo i noiosi battesimi e prime comunioni come riti opulenti di famiglia per bebé? Dunque, ecco sempre Vacchi che fa arrivare un elicottero planante nella sterminata tenuta di famiglia e poi far fuoriuscire un’enorme nube (tossica?) rosa, a segnalare che la nascitura sarà una femmina (si chiamerà, sic, Blu Jerusalema). Al passaggio tipo Apocalypse Now, papà e mamma si abbracciano, e si commuovono, stupiti (ma stupiti de che? Lei avrà fatto amniocentesi ed ecografie di cui è stata tenuta all’oscuro? Lui, che ha organizzato l’elicottero, non era consapevole? Solo pilota e ginecologo conoscono il segreto?). Il gender reveal sta velocemente prendendo piede a ogni latitudine. Il calciatore della Lazio Mattia Zaccagni e la fidanzata, l’influencer Chiara Nasti, per rivelare il sesso del neonato hanno affittato lo stadio Olimpico di Roma e hanno fatto allestire una scenografia spettacolare: Zaccagni tira una palla in porta scatenando un’esplosione di coriandoli azzurri. E poi appare la scritta cubitale: “It’s a boy!”. Perché nel gender reveal il verdetto è sempre in inglese, tranne a Napoli dove uno dei primi gender reveal proiettava le scritte “Boy or Girl?”, tra musica a palla e sulla facciata del caseggiato interessato. E poi, la risposta: “è Nunziooooo”. Pare che il primo gender reveal party nacque nel lontano 2008 per mano della blogger californiana Jenna Karvunidis (poi si è pentita, in una toccante intervista al Guardian). 
 
AM: E’ una grande neomelodificazione dell’esistenza che trasforma ogni tappa della vita in contenuto instagrammabile: il gender reveal party e prima ancora il matrimonio o l’addio al celibato/nubilato, il divorce party, passando da noi per per battesimi, comunioni, cresime, i micidiali diciottesimi e la sottovalutata ma tremendissima festa di laurea, format che in questi anni è cresciuto molto, peccato solo non abbia avuto il suo meritato riconoscimento televisivo (in Italia l’università non tira). Per esempio, nella novecentesca copisteria vicino all’università dove lavoro, studenti e studentesse arrivano con la foto del vestito che indosseranno il giorno della laurea, concordando col copista una copertina dell’elaborato che sia “in tinta”. Così, il gran giorno la laureanda sfila davanti la commissione imbracciando il suo, “La letteratura italiana della migrazione e le nuove sfide dell’inclusività: temi, figure, motivi”, con copertina zebrata e caratteri d’oro glitterati, che fanno pendant con la borsetta e le scarpe animalier. La tesi si fa in funzione delle photo-opportunity e del party, allestito con parenti e amici lì davanti, en plein air: tavolinetti portatili, prosecco caldo, bicchieri di plastica, mortaretti, urla, canti, stories a raffica su Instagram. Qui capisci la genialità tutta italiana di un format come il “Boss delle cerimonie”. Lì dentro c’è tutto. “Spaccato antropologico” e “specchio del paese”, avremmo detto un tempo.
 
MM: E così il gender reveal sta prendendo piede specialmente a Napoli, dove, si sa, il gusto delle celebrazioni non bada a spese. Così a Bagnoli è stato  recentemente fermato un elicottero che senza autorizzazioni spargeva in cielo fumo rosa (prima di Vacchi); e naturalmente il Vesuvio è coinvolto in questo nuovo format. Secondo Internapoli, “La tradizione americana del gender reveal è stata già rielaborata dall’inventiva napoletana. L’idea è venuta alla speaker radiofonica Stefania Zizolfi che ha creato, insieme alla event plannerFrancesca, una nuova versione made in Napoli della rivelazione del sesso del nascituro. Quindi addio ai palloncini e ai pupazzetti, ai colori rosa e al celeste e alla dicitura boy or girl. Tutti i riferimenti sono stati completamente soppiantanti dalla dicitura di ’o nennillo o ’a nennella. Il culmine dell’evento è rappresentato, quindi, da un enorme Vesuvio che erutta il fumo colorato che rivelerà il sesso del bimbo”.

AM: E poi, si sa, ogni rivoluzione culturale ha le sue città-simbolo. Roma per la “dolce vita”, Berkeley e San Francisco per la “counterculture” hippie, Milano-New York per gli yuppie anni Ottanta. Ora è il momento di Napoli.
 
MM: Napoli si sta imponendo come capitale alternativa a Milano nel social-trash. Così, se Milano è capoluogo dell’Instagram (influencer, amici di influencer, società di influencer, produttori di influencer, truccatori di influencer), Napoli trova una sua rilevanza su TikTok; e lì, saghe super-trash come quella di Rita De Crescenzo, 44 anni, 848 mila follower su TikTok e 127 mila su Instagram. Post-vajassa di massimo successo, è esplosa con “Tacatà” (“O bacin / O culett / O Tacatà-Tacatà”), il balletto  tormentone da quattro milioni e mezzo di visualizzazioni, “Ma te vulisse fa na gara e ballo”. Già arrestata per spaccio, poi assolta, ha deciso di lanciare una sua linea di abbigliamento. Qui si conferma, come scrive Ceccarelli, la smentita di una delle più celebri teorie di PPP: quella dell’omologazione dei costumi.  Nell’anno delle celebrazioni infinite pasoliniane, il trash italiano nella sua fantasia di cascami e diramazioni dimostra di essere vitalissimo (forse l’unica manifestazione vitale italiana).


AM: Poi, certo, ci sarebbe l’intramontabile kitsch letterario.
 
MM: O il kitsch balneare di Jovanotti e il suo tour estivo in cui travestito da capitano di Love Boat inscena dei finti Coachella o Burning Man per famiglie; il rapper già ribelle (ma figlio di funzionario vaticano), poi purificato dalla vita campagnola toscana, infine venerato guru per famigliole che leggono Internazionale, e adesso cura una raccolta di poesie “da spiaggia”! 

AM: Che avrebbe fatto impazzire Arbasino. Durante tutta l’escalation di inequivocabili “segni” che preparavano i tempi nuovi del trash (i tatuaggi su tutto il corpo, il botox di massa, sopracciglia ad ali di gabbiano), Arbasino, a 78 anni, se ne va nel vecchio sud ciociaro e pontino alla ricerca di un’ermeneutica del pantalone “a vita bassa”, calato ben sotto le chiappe, a scoperchiare orgogliosamente rotoli di ciccia orgogliosi nelle femminucce e culi anche brutti e spelacchiati nei maschietti (qui con tutto un nuovo prontuario di gesti essenziali, per esempio tirarseli su ogni due passi, come usava con la mano sul pacco negli anni della disco).
 
MM: “E lì, sui litorali e nell’agro e nei borghi (...) giovanottelli identici al loro divo Fiorello, nelle basettine affilate e nei sopraccigli perfettamente simmetrici: due ritocchi dall’estetista ogni settimana (a detta del barbiere). E veline, veline, naturalmente: accuratamente sciamannate, con numerose obese giovanissime assai vivaci e sciamanti che golosamente leccano gelati molto nutrienti per i pannicoli d’adipe fra la maglietta breve e i jeans XXL. Paparini affaccendatissimi nelle coccole ai pupi tra passeggini e berrettini e braccialettini e biberon; mogliettine con rughette d’espressione già ritoccate in verde età. Qualche vecchietto forse del ’68, giacché coi capelli bianchi tuttora indossa le antiche magliette slavatissime col ‘69’ sulla schiena, accompagnato da aggettivi trasgressivi d’epoca. E nipotini tutti alla moda ‘più e più estrema’ che sfoggiano i jeans stracciatissimi d’ordinanza appunto con ‘la vita bassa’ – sempre più bassa – sotto le chiappe e la necessità di tirarseli su a ogni passo”.

AM: E “là fuori” la vita bassissima diventa “lì dentro”, come nel libro di Filippo Ceccarelli (Feltrinelli), che è un incredibile viaggio al termine di Instagram per capire cosa siamo diventati noi italiani sui social. Avendo se non altro la conferma, anche un po’ rassicurante, che siamo quelli di sempre, quelli degli aforismi di Prezzolini e Flaiano e della commedia all’italiana. Solo con molti più tatuaggi in faccia e piercing ovunque. Ma l’arte di descrivere le stories, che Ceccarelli sviluppa in questo libro con la perizia e l’amore per il dettaglio di un Longhi o un Venturi, sembra davvero anche un nuovo genere della critica d’arte, una critica d’arte nell’epoca del trash.

MM: Ceccarelli da archeologo e accumulatore dei costumi italiani rintraccia linee, continuità, tracce, coadiuvato da Leopardi e Guicciardini, su alcuni caratteri immortali che cambiano solo mezzo espressivo. La mania declamatoria social-twitteristica è la prosecuzione con altri mezzi delle immortali scritte sui muri; e i “nuovi mostri” social, non sono che il solito grand guignol aggiornato al mezzo; Algero Corretini, quello di “ho preso il muro, fratellì”, il super coatto tatuatissimo che va contro i muretti in macchina (“Incontenibile, l’altra sera in chat ha alzato la gamba e scoreggiato suscitando entusiasmo in un giovane interlocutore. Quindi è andato a disturbare la diretta di una ragazza che parlava di cosmetica ponendo la domanda con affettata cortesia: posso colorare l’ano?”). In realtà mi sembra che assistiamo anche un grande ritorno della fecalità, della scatologia, nella narrazione del presente. Nel processo del secolo, appena concluso, Amber Heard nega d’essere stata lei a lasciare delle cacche sul talamo nuziale di Johnny Depp. Di lì, disamine di giorni, i migliori cervelli al lavoro, forse è cacca di cane, che, si sa, soffre di disturbi intestinali. Anche Fedez, nei Ferragnez, è tutto un “mi scappa la cacca”. E se al “Grande Fratello” è caccia grossa a chi lascia tracce di cacca nel bagno non pulito, “in” Rai il mistero è l’identità del funzionario petomane. Insomma, un mondo ultra-trash governato da bambini in preda alla regressione più totale. Ma è nel processone Depp-Heard che questo lascia stupefatti, come se fosse “Un giorno in pretura” fatto da bambini in preda alla regressione più totale.

AM: Naturalmente va riconosciuto anche a Roberto D’Agostino (e al “Cafonal” di Pizzi) di aver intuito con grande anticipo quanto il trash, televisivo o meno, fosse il vero campo di indagine e battaglia  per capire l’evoluzione di tutto. 


MM: Un altro topos che mi affascina è il vittimismo-trash. Il lamento del ricco come nuovo Trimalcione triste: come la bellona che si lamenta dei suoi inesistenti difetti fisici nell’èra dell’uno-vale-uno, anche il ricco non può essere più ricco senza una dose di sofferenza monetizzabile. Cioè lo è, ricco, ma deve pur metterci un quid di sofferenza. Un tempo si sarebbe scelto: se non vuoi apparire ricco, tieni un basso profilo, fai le vacanze in Badia e all’isola d’Elba, son cose che i miliardari milanesi fanno da secoli. Ma adesso si vuole tutto: i collaboratori filippini in alta uniforme, la Rolls Royce opaca, ma anche “mi faccio un mazzo così”. All’inizio lo spettatore del Vacchi-documentario non capisce in cosa si tradurrebbe questo “mazzo”, visto che subito dopo Vacchi dice “in questa casa vivo da quando avevo quattro anni”. Ma poi comprende: l’essere miliardario non è faticoso, è l’essere Gianluca Vacchi che lo è. Dunque crio-congelarsi la mattina in una specie di bara con zip, alla Michael Jackson, e poi una specie di doccia a meno cento gradi. Poi lavacri con cubetti di ghiaccio. “Ho meno di vent’anni di quelli che ho anagraficamente”, dice, soddisfatto, mentre a noi sembra molto più vecchio della sua età. Forse è il logorio della troppa palestra, oppure, è una mia teoria, i corpi degli influencer invecchiano più precocemente di quelli di noi mortali, esposti come sono ai milioni e miliardi di views, come se questi milioni e miliardi di sguardi si portassero via qualche pixel cadauno, tipo pezzo del muro di Berlino o NFT. 

AM: Ma è trash, del resto, anche la terza età. Quella reinventata da Maria De Filippi coi troni over, poi imposta come nuovo target. Non più età del raccoglimento e del rincoglionimento, non più età della riflessione, dell’acquiescenza, del riposo, ma anche lei età aperta e disponibile alle variopinte tentazioni del trash. Coi nonni che non ti guardano più i nipotini perché, “scusa ma domani devo fare i provini per ‘The Voice Senior’”. Sognano di sfondare in tv. Molti sono già diventati influencer.

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