(Foto di Ansa) 

Se vince un uomo

Ha perso Amber Heard, non tutte le donne

Mariarosa Mancuso

I danni causati dall’automatismo del #MeToo si sono riversati nel discorso dell'ex compagna di Johnny Depp, che ha definito la sua sconfitta come quella di un intero genere. Ma non è vero che le femmine hanno sempre ragione e i maschi sempre torto: il vittimismo diffuso deve essere frenato

Gli incalcolabili danni prodotti da “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood, “The Handmaid’s Tale” nell’adattamento televisivo. Amber Heard ha dichiarato che la sentenza (diffamazione incrociata fra lei e l’ex marito Johnny Depp, sposato nel 2015 e divorziato 15 mesi dopo) rappresenta una sconfitta per le donne, che se osano parlare vengono pubblicamente umiliate e svergognate. E’ difficile mantenere i nervi saldi, se sei appena stata condannata a versare 10 milioni di dollari al tuo ex consorte che ne aveva chiesti 50. Non è di gran consolazione sapere che Mr Depp te ne deve un paio, per decisione dello stesso tribunale (una leggerezza del di lui avvocato, che aveva parlato di prove falsificate). 
La linea di sragionamento è purtroppo condivisa. Ha vinto un maschio? Vuol dire che non è stata fatta giustizia verso la donna vittima, a cui viene tolto anche il diritto di lamentarsi. Johnny Depp aveva i social dalla sua, forse aveva scatenato i bot come qualsiasi No vax o complottista filorusso – sono i falsi account che a comando spargono fake news. Ha puntato sulla notorietà conquistata facendo il pirata dei Caraibi, “mentre la mia cliente, vostro onore” – sostiene l’avvocatessa di Amber Heard – “ha portato in tribunale una montagna di prove”. Un dibattimento durato sei settimane (trasmesso in streaming sulla rete Law & Crime, altro che le litigate perbene di “Scene da un matrimonio”, versione Bergman e versione Hagai Levi) e 13 ore in camera di consiglio hanno cancellato i diritti di una biondina maltrattata.
     

Che Johnny Depp e Amber Heard si maltrattassero l’un l’altro, in maniere anche fantasiose, il processo lo ha ampiamente accertato. I dieci milioni sono un risarcimento per la diffamazione, in un articolo pubblicato da Amber Heard sul Washington Post, in piena epoca #MeToo. Non faceva nomi, ma la controparte era più che riconoscibile. Soprattutto, reiterava l’odiosa abitudine di rovinare la reputazione a mezzo stampa, prima di denunciare il reato a un tribunale competente. Prima sputtanare, dopo (magari) accertare. Per chi vive di spettacolo e di immagine – a vedere la saga dei Pirati e il parco a tema non andavano certo gli adulti senza rampolli al seguito – una catastrofe.
Le donne non hanno sempre ragione e i maschi non hanno sempre torto, anche se a voi “dolcemente complicate” (quanti altri danni ha fatto quella canzone, quanti brutti caratteri sono stati spacciati per dolci complicazioni) la faccenda può spiacere. Ma non funziona così, l’automatismo del #MeToo andrebbe interrotto, o almeno frenato. Come il vittimismo diffuso, imperante, generoso di storie autobiografiche: se non soffri nulla di te mi interessa. Sostiene una mia saggia amica: la prima volta che un uomo ti dà una sberla è colpa sua; se capita una seconda volta, è colpa tua che non te ne sei andata. Ecco, ora arriva l’altro lamento sulle donne che non hanno lavoro o denari, e devono subire. Non sembra il caso di Amber Heard, qualche soldo l’aveva. Invocare la sudditanza psicologica fa torto alle ragazze che vogliamo essere.

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