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L'uguaglianza tra uomini e donne non si fa con i ragazzi in gonna

Manuel Peruzzo

Viviamo in una società che desidera fortemente essere gender neutral. Il patriarcato, il sessismo e il maschilismo tossico però non sono una questione di abbigliamento ma di diritti. Il caso del liceo Righi

Se John Stuart Mill fosse stato un liceale italiano anziché scrivere “L’asservimento delle donne” avrebbe indossato una gonna per lottare contro il patriarcato, il sessismo, il maschilismo tossico. Per fortuna non è successo. Ma sempre più spesso nella cronaca locale e liceale leggiamo di qualche protesta nata dalla parola sbagliata di un professore che non ha mai visto un profilo Instagram di un cantante, una serata di Sanremo o una serie televisiva e che pensa ancora (pensa l’antichità) che a scuola si vada vestiti in modo appropriato (e magari non si va ai funerali vestiti come al Muccassassina). Siccome non s’immaginano di finire sul giornale il giorno dopo dicono cose sgraziate e infelici tipo la professoressa del liceo Righi di Roma, quella che sorprendendo una studentessa con la pancia di fuori durante un ballo su TikTok le ha detto di coprirsi, che mica era una mignotta (le ha detto l’orrido “mica sei sulla Salaria”, come uno di quei tassisti che telefonano alla Zanzara), uscendone peggio di Pillon coi Maneskin in giarrettiera: come aver torto anche avendo ragione.

Siccome viviamo in una società che desidera fortemente essere gender neutral, dove le donne e gli uomini devono essere uguali (e a molti sfugge che l’uguaglianza dovrebbe essere dei diritti mica l’indistinzione totale dei corpi, dei desideri e della biologia) i ragazzi si infilano le gonne e mostrano le gambe e tutto il resto per convincerci che la società in cui viviamo è piena di pregiudizi. Paiono quelli che lottano contro l’algoritmo perché sessualizza il capezzolo femminile (censurando anche i cartoni animati) e non quello maschile (libero e felice). E quindi le tette della Ratajkowski dovrebbero farci lo stesso effetto di quelle di Luigi Di Maio al mare, e guai a voi se pensate di no, siete misogini (siamo sicuri che lo vogliamo veramente?).

Inutile dire che se per combattere il patriarcato bastasse una gonna significherebbe che questo patriarcato non se la passa granché bene. Chiunque abbia dato un occhio ai profili Instagram dei giovani (già solo scriverlo mi fa sentire al contempo vecchio e lubrico), sa che ci sono ragazzini che hanno incorporato così tanto il codice gay che si mostrano continuamente seminudi, si guardano tra loro languidi, fanno docce consapevoli che ci sarà un uomo a desiderarli e magari disposto a sottoscrivere un abbonamento su OnlyFans, solo 14.99 dollari, per vederli abbassarsi le mutande. In questo contesto infilarsi una gonna urlando da un megafono che “perché nessuno mi dà del gigolò se sono vestito così e a una donna si dà della troia?”, è così innocuo che non sorprende che queste battaglie siano spalleggiate dai genitori. Probabilmente pure all’oratorio gli darebbero una pacca sulla spalla.

  

È almeno dagli anni Sessanta che i giovani combattono il dress code, un po’ attraverso quelli che negli studi culturali di Stuart Hall si chiamano rituali di resistenza (i mods, i tods, gli skinheads, classi popolari che rielaborano codici vestiari per esistere in quanto gruppo sociale), un po’ attraverso la pop culture (ricordate i Beatles?), un po’ vestendosi e travestendosi in cerca di un’identità. Lo hanno sempre fatto, lo faranno sempre. Prima i giovani vestivano in un certo modo per appropriarsi della cultura dominante, oggi perché la cultura dominante si è appropriata di loro.

Scrive Harvey C. Mansfield, un filosofo politico americano autore di "Virilità" (Liberilibri), che “i sostenitori della società sessualmente neutra (chiamiamole femministe) si trovano a combattere su due fronti: da un lato vogliono dimostrare di essere competenti quanto gli uomini, dall’altro vogliono liberarsi della pericolosa figura del gentiluomo. Nel primo caso si tratta di mostrarsi virili, nel secondo di un tentativo di negare la virilità”. Agli uomini pare spetti il duro compito di femminilizzarsi ancor di più per cancellare il sospetto di complicità col patriarcato (ormai la virilità è come i lavori pesanti, nessuno la vuole più). 

Qualche giorno fa Tommaso Zorzi, che di mestiere sta un po’ in tv e un po’ su Instagram, si lamentava che dei poliziotti lo hanno interrogato circa la provenienza della borsetta che indossava, rimanendone sconvolto perché questi non capivano che un uomo poteva benissimo aver comprato una borsetta per sé. Tralasciando la fantasiosa idea che secondo questi poliziotti un ladro giri con la borsetta trofeo sotto ai loro nasi, è se non altro un sollievo che non abbia risposto che certo che la borsetta era sua: “L’ho comprata per aiutare le donne a emanciparsi!”

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