Separazione, Edvard Munch, Oslo (Wikipedia) 

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Sciagurata resilienza, che ci vieta di fallire e trasforma in colpa il nostro dolore

Giacomo Papi

E' diventata una parola-valore dei nostri tempi. Ma il problema con la resilienza è che la regola la fanno i forti, non i deboli. Ci addossa la responsabilità del fallimento e colpevolizza il dolore

L’umanità si divide in due: quelli che usano volentieri la parola “resilienza” e quelli che piuttosto si farebbero ammazzare. Ipotizzo che Mario Draghi appartenga alla seconda categoria: nel suo discorso alla Camera del 26 aprile sul Piano nazionale di ripresa e (appunto) resilienza è riuscito a pronunciare la parola in questione la miseria di quattro volte su 4.515 parole, e sempre citando il piano suddetto. Per distogliere l’attenzione dalla sua ritrosia, il presidente del Consiglio ha messo in atto un astuto depistaggio continuando il siparietto contro l’uso dell’inglese inaugurato il 12 marzo scorso parlando di “smart working” e “baby sitting” (“chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole in inglese?”): ha ridacchiato per il “governo del piano” (“quello che gli altri chiamano ‘Governance’”) e sollevato un sopracciglio leggendo “Family Act”. Il mio sospetto è che combattesse un’eroica, clandestina resistenza alla resilienza attraverso la reticenza.

 

La parola “reticenza” deriva dal latino, ma ritorna nell’italiano dall’inglese dopo essere sopravvissuta per secoli nell’ambito dell’ingegneria e della fisica. La resilienza, infatti, è la capacità di un corpo di resistere agli urti, anzi di assorbirne l’energia per rilasciarla poi. Una proprietà che ha a che fare con l’elasticità. Per estensione in psicologia è diventata lo spirito di adattamento, la capacità di farsi rimbalzare addosso le cose (il latino “resilire” significa, appunto, rimbalzare) riassumibile nel detto “Mi piego, ma non mi spezzo” che a sua volta ribalta il latino “Frangar, non flectar”. In Italia la parola ha iniziato a diffondersi alla fine del secolo scorso, dapprima in contesti filo New Age, macrobiotici e biodinamici, poi sempre di più nel discorso comune fino a imporsi come dominante negli ultimi dieci anni. 

 

Un articolo dell’Accademia della Crusca a cura di Simona Cresti individua il colpevole nel quotidiano la Repubblica che dal 19 febbraio 1986 a oggi ha usato “resilienza” 225 volte contro le 72 del Corriere della sera. Il contagio iniziò dai corrispondenti esteri che probabilmente volevano risparmiarsi la fatica di tradurre l’inglese “resilience” con espressioni più diffuse in italiano, ma è presto dilagato alla cronaca nazionale perché scrivere “resilienza” sembrava raffinato e moderno, ma anche perché nel suo significato risuonava qualcosa che appariva allineato allo spirito dei tempi. Stefano Bartezzaghi, sempre su Repubblica nel 2013, ha scritto di “parola chiave di un’epoca”, proponendo un interessante distinguo tra “parole-valori”, che sono astratte come uguaglianza, libertà o pace, e “parole-coro”, che indicano “attività, atteggiamenti, relazioni, anche se a volte valori lo diventano (mezzi che si tramutano in fini)”. Tra le “parole-coro” diventate valori, Bartezzaghi cita “contestazione”, “ricostruzione”, “modernizzazione”, “creatività” e le più recenti “connessione” e “condivisione”. Per concludere: “‘Resilienza’ sembra proprio volersi avviare alla carriera di parola-chiave, e vedremo come andrà”.

 

E’ andata a finire come sappiamo, con buona pace di chi non la userebbe neppure sotto tortura e forse anche del primo ministro italiano: dopo il suo trionfale ingresso nel piano di ricostruzione europeo (mannaggia al funzionario a cui è venuta l’idea e a quelli che hanno votato a favore) la “resilienza” è diventata la parola simbolo della nostra epoca. La buona notizia è che le ragioni profonde del trionfo e dell’antipatia sono più chiare. Chi la avversa non è semplicemente infastidito da una parola di moda, intuisce che nel significato di resilienza si nasconde un imperativo morale vischioso. Si nasconde, cioè, il tentativo radicale e ideologico di negare la possibilità stessa del male e di addossare a ognuno la responsabilità di reagire trasformandolo in bene. Il dovere di farselo rimbalzare addosso. E’ un’ideologia americana (“Non importa quante volte cadi. Quello che conta è la velocità con cui ti rimetti in piedi”, Joe Biden) ma il suo manifesto è Il dolore meraviglioso, un libro di uno psichiatra e psicanalista francese, Boris Cyrulnik, che ha dimostrato come non tutti i bambini abusati o cresciuti in lager o gulag si siano lasciati sopraffare e, anzi, che alcuni siano diventati più forti. Il problema con la resilienza è che la regola la fa chi ce la fa, non chi soccombe. La fanno i forti, non i deboli. La fa Bebe Vio che diventa una famosa campionessa nonostante la malattia terribile di cui ha sofferto da piccola, non la fanno tutti gli altri bambini che non sono riusciti a reagire. La parola “resilienza” incita a reagire, ma intanto dice che il dolore, in fondo, dipende da noi, dalla nostra volontà, il che non è vero o lo è solo in parte. La parola “resilienza” nega alla radice, cioè, che ci sia permesso soffrire e abbattersi per il male del mondo. Ci vieta di fallire e trasforma in colpa il nostro dolore.

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