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Inefficienti ma felici. Tim Parks racconta cosa rende unica la società italiana

Giacomo Papi

La fedeltà al gruppo e il tradimento, valore e peccato supremi dell'"italian life", nel romanzo dello scrittore inglese

Ogni volta che leggo un libro di Tim Parks arrivo alla fine senza sapere perché. C’è qualcosa nella calma con cui la sua scrittura procede e divaga che mi ammalia anche se il mio interesse di partenza per i temi affrontati era pari a zero. Mi è capitato anni fa con “Insegnaci la quiete”, 342 pagine di riflessioni su uropatie e meditazione, e mi è ricapitato con le 427 pagine del suo ultimo romanzo, “Italian life. Una fiaba moderna di amori, tradimenti, speranze e baroni universitari”, appena pubblicato da Rizzoli. Tim Parks, per chi non lo sapesse, è uno scrittore e traduttore inglese che vive in Italia dal 1981, prima a Verona, dove ha frequentato gli ultras della curva, poi a Milano, dove ha insegnato alla Iulm. Parks scrive di letteratura sul New Yorker e sulla New York Review of Books e ha tradotto in inglese, tra gli altri, Calvino, Svevo, Moravia, Calasso, Tabucchi e Machiavelli. Ora che ci ripenso, credo che il motivo per cui non riesco a smettere è il suo sguardo da entomologo.

 

 

La trama di “Italian life” (tradotto in italiano da Eleonora Gallitelli) è piuttosto semplice, un dichiarato espediente per parlare d’altro. Ci sono due personaggi principali: Valeria, una ragazza che dalla Basilicata si trasferisce a Milano per studiare all’università, e James, un inglese che è finito a insegnare proprio in quell’università. Intorno a loro gravitano molti altri personaggi, che Parks racconta osservandoli da vicino, al microscopio, ma mette in scena da lontano, come pesci rossi che nuotano ignari in un acquario. A legare le vicende, tutto sommato banali, dei personaggi, sono divagazioni su Cesare Pavese, Primo Levi, Natalia Ginzburg, Giuseppe e Anita Garibaldi, sui preti cattolici e le loro omelie ai funerali, Dante, i Guelfi e i Ghibellini, le fiabe di Giambattista Basile. Il libro è costruito, cioè, come un percorso a zigzag, come una incasinatissima mappa sul famoso carattere degli italiani.

 

“Ci sentiamo ripetere in continuazione”, scrive Parks all’inizio, “che nella sostanza l’esperienza umana è la stessa in ogni parte del mondo. Si è felici e si soffre. Ebbene, non è così. O lo è solo in parte. Non serve essere in Italia da molto tempo per capire, cercando un lavoro, richiedendo i documenti, interagendo con i parenti acquisiti, i colleghi, i cassieri di banca, i camerieri, i controllori, che qui la gente si comporta diversamente e si aspetta dagli altri un comportamento diverso. Ci vogliono invece molti anni per capire che qui anche l’allegria e la tristezza sono diverse, e a suscitarle sono circostanze diverse”. Il “qui la gente” indica, ovviamente, che Parks scrive per gli inglesi ed esercita sugli italiani quello sguardo scandalizzato e divertito, ma lievemente colonialista, che hanno spesso gli inglesi all’estero. Uno sguardo, però, che può diventare uno specchio.

 

 

Al centro del romanzo – che descrive nel dettaglio come funziona un’università privata italiana – c’è il potere, il suo esercizio, le logiche con cui in Italia si condensa e si perde, le strutture sociali, tribali, religiose su cui si basa. La conclusione di Parks è che noi italiani formiamo la nostra identità individuale in rapporto al gruppo o ai gruppi di cui facciamo parte, e che questo abbia ricadute concrete e decisive sul modo in cui funziona la nostra società e sulla politica, oltre che sulla nostra vita concreta. L’appartenenza al gruppo sarebbe, cioè, alla radice dell’inefficienza, dell’eccesso di burocrazia, della corruzione e perfino della mafia. Ma sarebbe anche all’origine della nostra felicità, paura e sofferenza individuale.

 

L’argomentazione è convincente – anche se viene da chiedersi com’è che si soffra e corrompa anche all’estero – soprattutto quando indica nella fedeltà al gruppo il valore sociale e nel tradimento il peccato supremi in Italia, e quando mostra che la paura di essere espulsi è il meccanismo di controllo individuale che rende immutabile il sistema. In Italia appartenenza e lealtà, dice Tim Parks, sostituiscono il Bene. Non è un caso che la nostra letteratura parli di questo: “‘Il deserto dei Tartari’. ‘Il sentiero dei nidi di ragno’. ‘Il bell’Antonio’, ‘I promessi sposi’. ‘Caro Michele’. ‘Menzogna e sortilegio’. ‘Il conformista’. ‘La luna e i falò’. ‘Fontamara’. Tutte storie di esclusione e tradimento”. E’ per questo che in italiano non esiste una traduzione per “whistleblower”: il “segnalatore di illeciti” diventa subito “traditore”. Di fronte al Male le uniche alternative sono tradire o rassegnarsi. “Se il mondo è immancabilmente malvagio”, scrive l’inglese Parks in questa invettiva che è anche un atto d’amore, “sei esonerato da ogni tentativo di fare qualcosa per migliorarlo”. Molti italiani concluderebbero, invece: sei autorizzato a fare qualsiasi cosa per migliorarlo, per te e per i tuoi. 

 

P.s. Nel marzo 2017 Tim Parks ha presentato domanda per la cittadinanza italiana. E’ stata accolta pochi mesi fa, dopo quattro anni.

 


 

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