Chiara Ferragni (LaPresse)

Spazio Okkupato

Sul web il potere di influenzare ormai è senza contrappesi. Il caso Ferragni

Giacomo Papi

Prima di Internet la forza che deriva dalla visibilità si costruiva all’interno di un sistema, come un partito o una rete tv, appoggiandosi sulla struttura di cui era frutto, che gli dava forza e al contempo lo limitava. E ora?

Che i social stiano cambiando la politica è una constatazione banale: il 2021 è cominciato con un tentato colpo di stato convocato su Twitter. Che un vecchio film con Spencer Tracy possa far capire dove stiamo andando è più sorprendente. Il film è Prigioniera di un segreto (Keeper of the flame) di George Cukor, 1942. Spencer Tracy – che il 5 aprile, peraltro, avrebbe compiuto 121 anni – è Stephen O’Malley, giornalista che intende scrivere la biografia di Robert Forrest, un miliardario ed eroe nazionale morto all’improvviso in un incidente stradale. O’Malley si intrufola nella villa di Forrest dove incontra Christine (Katharine Hepburn), la sua giovane vedova. Scoprirà (attenzione: spoiler! Sciò! Filate al prossimo paragrafo) che a provocare la morte di Forrest è stata Christine per impedirgli di fare un colpo di stato fascista in America, contando sul suo consenso personale e sull’esercito di boy-scout disposti a tutto per lui. (Per inciso, lo sceneggiatore del film è Donald Ogden Stewart che nel 1941 aveva vinto un Oscar per Scandalo a Filadelfia, sempre di Cukor, ispirato a Ernst Hemingway il personaggio di Bill Gorton in Il sole sorge ancora, e naturalmente negli anni Cinquanta sarebbe finito nella lista nera del senatore McCarthy). All’uscita “Prigioniera di un segreto” provocò un casino, non solo nel Bureau of Motion Pictures (Bmp) e tra i repubblicani, ma perfino il capo della Mgm Louis B. Mayer uscì infuriato dal Radio City Music Hall dove si teneva la prima, dopo aver capito di aver prodotto un film che equiparava ricchezza e fascismo. 

 

Il film mi è tornato in mente dopo avere visto i post di Chiara Ferragni contro le scandalose inefficienze delle vaccinazioni in Lombardia e quelli di Fedez ed Elodie contro il rinvio voluto dalla Lega della discussione sul ddl Zan su omotransfobia e misoginia. Pur provando, lo ammetto, una certa soddisfazione, senso di rivalsa e solidarietà, mi sono chiesto come mi sarei sentito se non fossi stato d’accordo. Che cosa avrei pensato se a irrompere nella politica contando sul proprio potere social fosse stato un fanatico religioso nazista razzista sessista? Nell’epoca della disintermediazione i like assomigliano ai voti e il numero dei follower misura il consenso, quindi il potere, perché i follower sono in maggioranza persone interessate ad ascoltarti e inclini a crederti. Chiara Ferragni ne ha 23,2 milioni, più o meno quanti i voti sommati di Lega e Cinque stelle alle politiche del 2018; la cantante americana Ariana Grande 229 milioni, 69 in più del numero totale dei votanti alle ultime elezioni americane; il calciatore portoghese Cristiano Ronaldo 272 milioni, 260 volte gli abitanti del Portogallo.

 

Non sto dicendo, ovviamente, che Chiara Ferragni sia un pericolo per la democrazia italiana, come Robert Forrest lo era per quella americana nel film di Cukor. E neppure che, superata una certa potenza, si debba vietare a qualcuno di esprimersi o intervenire nella politica. Mi sto chiedendo se il digitale cambi qualcosa di essenziale nella struttura e nelle dinamiche della leadership e se ci sia differenza tra sostenitori, seguaci e follower. Certo, chi è famoso ha potere da sempre, anche prima di Internet. I mezzi di comunicazione di massa hanno ingrandito i confini della fama e regalato a singoli individui – Walter Cronkite, Elvis, John Lennon, Oprah Winfrey, Mike Bongiorno – un seguito che nessuno prima di loro si sarebbe sognato. Nel Novecento la visibilità è stata la misura della leadership anche per i grandi leader politici e religiosi. Non c’è differenza allora? Si tratta solo del mezzo su cui questa coincidenza tra fama e potere si esercita. O c’è qualcosa di più profondo? 

 

 

A me pare che una differenza ci sia: prima di Internet il potere fondato sulla visibilità si costruiva sempre all’interno di un sistema – un partito, una rete televisiva, una casa discografica – posava, cioè, sulla struttura di cui era frutto, che gli dava forza, ma al contempo quasi sempre lo limitava. Perfino il Papa è il frutto del Vaticano. Perfino Berlusconi – su cui in Italia abbiamo litigato per vent’anni – è stato il frutto delle televisioni da cui traeva il suo consenso. Oggi, invece, il potere di influenzare sembra essersi sganciato dalla struttura che lo sorregge: basta a se stesso e si presenta senza contrappesi per la prima volta nella storia, come se fosse virtualmente onnipotente. Può darsi che questa liberazione dalla struttura renderà più libero il gioco democratico, permettendo a chiunque abbia le idee di farsi ascoltare come se avesse anche i mezzi. Può darsi, invece, che si stia entrando in un gioco diverso in cui interessi e valori, politica e consumi – vaccinazioni lombarde, legge Zan e finale di Sanremo – si intrecceranno fino a essere indistinguibili fin quando in futuro, come nel Medioevo, il potere apparterrà a signorotti e signorotte digitali arroccate in cima ai propri follower. Ai post l’ardua sentenza.

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