Fotogramma da La banda degli onesti (1956), con Totò e Peppino De Filippo

L'aroma del nostro ristoro

Amori, veleni e tradimenti. Ritratto dell'Italia in un caffè

Francesco Palmieri

Quanto ci manca quel rumore di piatti e di tazzine fumanti. Da De Crescenzo a Totò, da Pino Daniele a Domenico Modugno. Storia di una poetica ossessione che si è fatta perfino metafora delle proteste Il suono delle riaperture dovrà concertare l’acciottolio di tazze e il tintinnio dei cucchiaini. Tra banconi affollati e tavolini, si ritroveranno le vite di prima

“Qua sta Michele che vi porta il vostro conforto: caffè, caffè lungo, latte e cappuccino! Il caffè è un amico, un amico che vi tiene svegli, vi fa stare più allegri e qualche volta evita i dispiaceri”
Nino Manfredi in “Café Express” (1980)


Adesso più che mai, nella stagione dell’asporto, tocca comprenderla questa poetica ossessione del caffè che s’avvinghia anema e core a molti, napoletani e no. Utile a scrivere di notte non essendo Balzac, a scandire con esili consolazioni la giornata, a insaporire incontri scialbi, a farsi anche metafora delle proteste, ’na tazzulella ‘e cafè, cantava Pino Daniele, “acconcia ‘a vocca a chi nun vo’ sapè”. “E nuje tirammo ‘nnanze, / cu ‘e dulure ‘e panza / e invece ‘e ce ajutà, ce abboffano ‘e cafè”. Ventun anni prima di questa canzone, in un film del ’56, Totò utilizzò la metafora dello zucchero versato in debordante quantità nel suo espresso (mentre quello di Peppino, discente estemporaneo, restava amaro) per rappresentare l’avidità dei profittatori e giustificare il tentativo di fabbricare banconote false, che poi la “banda degli onesti” non avrebbe avuto cuore di spacciare. Nello stesso anno però in un altro film – Totò, Peppino e i fuorilegge – impiegò a rovescio la faccenda dello zucchero per lamentare la patologica avarizia della moglie, Titina De Filippo, che gliene lesinava un cucchiaino. Oggi diremmo “un ristoro”.

 

Ed è sempre su un espresso dolce o amaro che gioca la celebre canzone ’A tazza ‘e cafè, suggerendo pazienza nella seduzione di una donna dai modi scorbutici: “Sotto tenite ‘o zucchero / e ‘ncoppa amara site. / Ma i’ tanto ch’aggia vutà / E tanto ch’aggia girà / C’’o ddoce ‘e sotto ‘a tazza  / Fino a ’mmocca m’adda arrivà!”. Era il 1918, si festeggiava la fine della Prima guerra mondiale ignari che l’arrivo della pandemia di Spagnola avrebbe fatto ancora più vittime, ma Giuseppe Capaldo da quando aveva dismesso la divisa di cameriere per fare il paroliere a tempo pieno si concentrava piuttosto sui suoi problemi di sopravvivenza economica. Gliene risolse parecchi proprio quella canzone che il musicista Vittorio Fassone, proprietario di una ditta di pianini, fece circolare in tutta la città. Nessuna quota del successo spettò a tale Brigida, la scontrosa cassiera del Caffè Portorico che aveva inconsapevolmente ispirato Capaldo. Lui, come molti verseggiatori della letteratura alta e bassa, fece fortuna dei rifiuti amorosi: gli esiti felici dei corteggiamenti producono endorfina ma assai meno canzoni.

 

La verità è che quasi tutti gli struggimenti di quei poeti, gli endecasillabi su cui poggiavano i cuori sbattuti, la gamma dei “senza te non vivrò”, l’armamentario rimato che a volte assurse ad autentici livelli artistici, nacquero dalla trasfigurazione di una realtà piantata nella prosa dei “bassi”, dei salottini in stile o al più sulla ribalta dei Cafè chantant. Solo rigirando molto lo zucchero nella tazzina emersero Sirene dall’ispida platea di cantatrici, stiratrici, fioriste e cammorristelle. Aveva ragione l’ingegner Luciano De Crescenzo, che di caffè e anime femminili fu intenditore: “Io consiglio al lettore di girare quanto più sia possibile non solo il caffè, ma tutte le cose che ama. Del resto, il caffè è una cosa seria, proprio come lo è l’amore”.

 

Qualcuno ricorderà, ad asseverare il binomio avallato da Capaldo e De Crescenzo, quel classico sanremese di Riccardo Del Turco: “Ma cosa hai messo nel caffè / che ho bevuto su da te? / C’è qualche cosa di diverso / adesso in me; se c’è un veleno morirò, / ma sarà dolce accanto a te / perché l’amore che non c’era / adesso c’è”. (Correva il 1969: più o meno a mezza via tra il ’54, quando qualcuno mise la stricnina nel caffè del pentito Gaspare Pisciotta, e l’86, quando il cianuro nella tazzina uccise il banchiere Michele Sindona. Ma queste sono tutt’altre storie).

 

Adesso figuriamoci: con mezza faccia nascosta dalla mascherina Ffp2, e un saluto coi gomiti, quale eros potrebbe suscitare una qualsiasi aspirante Sirena. L’eros s’è sperso per aria come il gusto dei caffè bevuto nei bicchieri di carta, che pure un tempo rilasciò dai thermos una certa poesia crostosa e assonnata nelle notti di viaggio su quei treni dalle carrozze verdi, dove il suo aroma si sedimentava assieme al tanfo di creolina negli scompartimenti raccontati da Nanni Loy per la televisione con Viaggio in seconda classe e al cinema in Cafè Express, cronaca delle peripezie di un venditore abusivo. Nino Manfredi alias Abbagnano Michele è braccato dal personale ferroviario e da una banda di taglieggiatori lungo la tratta che risale da Vallo della Lucania a Napoli Centrale.

 

Scurdammece ‘o passato. E uno ci prova pure. Ma è quasi impossibile.

 

Ci si sorprende a rimpiangere persino l’attesa in seconda fila al bancone, con lo scontrino in mano, mentre due impiegate dell’ufficio di sopra stanno sorbendo un caffè incommensurabile fra una chiacchiera e un sorso, due sorsi e una chiacchiera. Persino il cappuccino collettivo tra le mamme di scuola, quotidiano raduno anti-maestre o contro chi di loro quel giorno non c’è; persino l’espresso nel bar sbagliato, dalla coloritura paglierina e dal sapore acquoso – una “ciofeca” avrebbe esclamato Totò – persino questo ci manca, quant’è vero che nella vita non si può mai dire mai. Dopo oltre un anno di chiudi, apri e richiudi causa Covid, genera davvero nostalgia la tazzina, e se qualcuno la elevava a rito non lo accuseremo più di esagerare. Il caffè consentito dalle ordinanze sanitarie, quello non già sorbito ma “assunto” nei bicchieri di plastica o di carta fuori dagli “esercizi commerciali”, il caffè non più servito ma “asportato” somiglia troppo alle dosi di metadone somministrate ai Sert, ai conforti da campo distribuiti dalla Protezione civile ai naufraghi o agli sfollati di un sisma nel primo mesto risveglio.

 

 

 

Forse sì, bene ha fatto lo storico Caffè napoletano Gambrinus a serrare i battenti in attesa del “fine pandemia” che persino il tetragono governatore De Luca un giorno fischierà, lui magari dopo tempi supplementari e ulteriori rigori. Bene fa chi invece del bicchierino en plein air a mascherina calata si rifugia solamente nella tazzina di casa, magari con la moka anziché in cialde o capsule. Il niente, rovesciando un proverbio milanese, a volte è meglio del piuttosto. Specialmente quando si vive in una buzzatiana Fortezza Bastiani da Deserto dei Tartari alla rovescia, ossia non aspettando un nemico che mai verrà, ma attendendo che il Covid vada via anche se – lamenta Zerocalcare in un video che impazza sul web – questo dramma è così lento che inibisce cervelli, emozioni e creazioni. (Fatti salvi i romanzi “pandemici”, prevedibili come le zanzare estive o le pene accessorie a una condanna inesorabile).

 

Altro che espresso, fosse pure al presunto ginseng o alla nocciola. Questo è più lo sciagurato tempo di valeriane e camomille, un’epoca emergenziale che ha promulgato gli apericena via Zoom mortificanti già per un Campari figurarsi col caffè, sotteso dal Settecento a una civiltà che – con il dovuto rispetto per la Natura – reclama la ripresa dei propri spazi (Starbucks inclusi, che Iddio ci perdoni). Perché l’espresso, si sa, è un eccitante pure per le nostre relazioni sociali. Senza bisogno della roboante patente antropologica di “patrimonio immateriale dell’umanità”, elargita presso le Nazioni Unite e di recente caldeggiata dal ministero delle Politiche agricole e forestali. La superflua aspirazione è stata cassata giorni fa dal Consiglio direttivo della Commissione nazionale italiana per l’Unesco, che ha preferito al caffè altre due candidature alla lista “Intangible Cultural Heritage”: il Festival dei giochi tradizionali in strada e l’allevamento dei cavalli lipizzani.

 

Sulla bocciatura del caffè, o quantomeno il suo rimando all’anno seguente, ha pesato la rivalità tra il Consorzio di tutela dell’espresso italiano tradizionale di Treviso e la Regione Campania, che hanno presentato due dossier concorrenti. No, non siamo ancora una nazione veramente unita a differenza della Francia, che intanto al consueto grido di “Vive la Patrie!” si è presentata compatta alla prova dell’Unesco con una parola sola. Baguette.

 

Eppure, alzi la mano chi sul serio s’immalinconisce pensando che il caffè nostrano non potrà contendere l’inclusione nel “patrimonio immateriale” al canto polifonico della Bulgaria sudorientale, alla rumba congolese, alla danza del tamburo degli Inuit, ai giochi nomadi dei kirghisi, al canto popolare maltese e alla danza xòe della minoranza thai in Vietnam, che sono oggetto di valutazione per la commenda Unesco assieme ad arti come la falconeria e la calligrafia araba, per le quali passare l’esame burocratico delle Nazioni Unite suona forse più umiliazione che promozione. (Al concorso, d’altronde, l’Italia sin dall’inizio non poté negarsi e ne ha tratto soddisfazioni per esempio con il riconoscimento dell’opera dei pupi, del canto a tenore sardo, dell’arte del “pizzaiuolo” e di quella dei muretti a secco).

 

Beviamoci sopra un’altra tazza di caffè: One More Cup of Coffee prima di andare, come cantò Bob Dylan per far poesia di un addio a una ragazza gitana in Camargue, laddove un Hemingway ne avrebbe fatto prosa grazie ai locali Vins Sables.

 

   

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse

 

“Prendiamoci un caffè”. E’ la formula convenzionale con cui s’imbastisce un business o un chiarimento tête-à-tête, un pettegolezzo fatuo o una significativa riappacificazione. All’opposto, “neanche un caffè con lui (o lei)” è diniego esecratorio e definitivo eccetto che in politica o in amore, dove tutto e il suo contrario vigono sempre ipotizzabili. Con questa frase il presidente di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, sancì le distanze dal leader della Lega dopo il “ribaltone” che condusse al governo Dini nel ’94: “Con Bossi non intendo prendere neanche un caffè. Un’alleanza tra il Polo e la Lega è impensabile e impossibile”. Più tardi fu, naturalmente, pensabile e possibile. Peccato che all’Unesco nessuno abbia ancora candidato l’arte delle frasi a effetto quale patrimonio culturale dell’umanità.

 

“Prendiamoci un caffè”. Magari al tavolino così parliamo con calma. Finanche fossimo il Fini d’allora, oggi lo consumeremmo pure con il senatur per quanto non ne possiamo più. Ma s’ammainerà, una buona volta, il vessillo pandemico rosso-arancio issato sull’Italia-Fortezza Bastiani, dove “date che una volta erano parse inverosimili, da tanto lontane, si affacciavano ora improvvisamente al vicino orizzonte, ricordando le dure scadenze della vita”. Primavera 2020, l’illusoria estate, l’autunno e poi Natale ma ecco già trascorsa Pasqua 2021 in attesa della prossima bella stagione. E di un altro Natale che chissà come si presenterà: “Ogni volta – scrive Buzzati – per poter continuare, bisognava farsi un sistema nuovo, trovare nuovi termini di paragone, consolarsi con quelli che stavano peggio”.

 

Quanto ci manca l’acciottolio di piatti e tazzine fumanti appena tolti dalla lavastoviglie sotto il bancone. Quanto l’insegna inaspettata di un bar ancora aperto malgrado sia passata mezzanotte. Che nostalgia persino di quando domandavi un espresso mentre impilavano già i tavolini e il banconista allargava le braccia: “Sto pulendo la macchina, se vuole ho il caffè freddo”. Nel ricordo né tu né lui indossavate mascherine, anzi ti è rimasta impressa la sua espressione stanca e forse a lui la tua piuttosto infastidita.

 

Quanto ci manca il caffè d’esordio al mattino nella sala ristorante dell’albergo dove siamo arrivati la sera prima, in una città che non conoscevamo e siamo curiosi di scoprire, ma intanto vorremmo sapere cosa hanno messo sul buffet e che lingua parlano quei due seduti al tavolo vicino. Quanto ci guizzano adesso per la testa, pensieri come delfini, le immagini della più bella scena di caffè mai vista al cinema, quella di Noodles che ne chiede al grasso Moe una tazza tornando dai compagni della banda in C’era una volta in America. Per un minuto abbondante Leone fa rigirare il cucchiaino a De Niro, come la lancetta incantata di un orologio che testimonia il sentimento scettico di riportare a galla l’antica solidarietà infantile della gang, guastata senza rimedio dalla vita e dalla voglia di potere. Un minuto di film dove si sente solo il tintinnio e solo si vedono le facce mute che guardano quella tazzina dicendo tutto senza dire niente. Il caffè per Noodles è il contrario dell’oppio che si va a fumare dai cinesi. La droga lo rapisce dal presente verso un tempo a orologi straniti che confonde passato e futuro; il caffè invece annulla il prima e il dopo e rituffa il personaggio nel momento. Perché il caffè mette in riga tutti davanti al calendario, come fanno i giornali quotidiani e le scadenze fiscali, come fanno i compleanni che pure a non contarli c’invecchiano uguale. 

 

  

 

“Bisogna cominciare ad avere di nuovo il gusto del futuro”, ha esortato il presidente del Consiglio Mario Draghi durante un incontro con i governatori delle Regioni. Ma quel gusto del domani, proveniente da un tempo che si spezzò tredici, quattordici mesi fa, contiene il sapore del caffè. Meglio persino il nervosismo per le troppe tazze, quello che inclina a una sorta di rapidità senza sorrisi, meglio quello rispetto alla depressa quiete oppiacea. Il suono delle riaperture dovrà concertare l’acciottolio di tazze e il tintinnio dei cucchiaini. Basta con la caffeina “assunta” in solitario, che si torni a sorbirla in compagnia seppure in eccesso. Che si possa lasciare un caffè “sospeso” per l’ignoto che verrà dopo di noi e che si possa ricordare, o immaginare, come dall’offerta di un caffè talvolta nascano inattese fortune. Così vagheggia La Cenerentola di Rossini. L’opera comincia proprio mentre lei sta badando alla cuccuma che bolle sul focolare. Quando picchia alla porta Alidoro, tutore del principe sotto le false spoglie di pezzente, le sorellastre lo scacciano ma Cenerentola lo accoglie e gli riempie una tazza, sicché lui capisce da subito chi, in quel palazzo, meriterà le attenzioni regali (“Forse il ciel il guiderdone/Pria di notte vi darà”).

 

Che si moltiplichino nuovamente, tra banconi affollati e tavolini, le vite di prima con le loro illusioni e delusioni, i due poli tra cui oscilla il pendolo della vita. “ll gusto del futuro” si ridesta dalle consuetudini minute del passato. Come tornare a dire: “Passami una bustina di zucchero, grazie”. O declinare l’ennesimo invito al bar rispondendo: “No grazie, il caffè mi rende nervoso”, che fu anche titolo di un film dell’82 con Lello Arena protagonista e il cameo di Troisi che recitava se stesso. Che si possa tornare a esplorare certe storiche librerie dove all’entrata del cliente affezionato parte una chiamata al bar per il caffè, associando così il suo gusto al tatto e all’odore dei tomi fuori catalogo, delle raccolte illustrate, degli arrivi non ancora inventariati.

 

“Ah, c’addore ‘e cafè / ca se sente pe’ ‘sta città, e ‘o nervuso, nervuso comm’è, / ogni tanto s’ ‘o va a piglià…” recita ’O ccafè, che Riccardo Pazzaglia scrisse e Domenico Modugno musicò a ritmo di tarantella nel 1958. Un brano che diventò un classico e fu vestito di nuovo nel ‘90, da Fabrizio De André con Massimo Bubola e Mauro Pagani coautori di Don Raffaè. Ispirato alla figura del boss camorrista Raffaele Cutolo, il pezzo riproponeva parafrasato il refrain della canzone antecedente: “Ah, che bell’ ‘o cafè / Pure in carcere ‘o ssanno fa / Co’ ‘a ricetta che ‘a Ciccirinella / Compagno di cella, c’ha dato mammà”.

 

Sì, “prendiamoci un caffè” sarà il mantra restauratore di relazioni abituali o casuali, la rinascita dei bar più angusti dove adesso ti lasciano entrare a uno o due alla volta, sarà il ritorno dei commenti sul calcio con l’inserto sportivo che ogni avventore sgualcisce un po’ di più per tramandarlo sul solo tavolino interno al cliente di dopo. “Prendiamoci un caffè” sarà il pretesto per tentare una cassiera che magari non è scontrosa come Brigida o come quella, senza nome, per cui Salvatore Di Giacomo sorseggiava da giovane (o avrà immaginato di farlo) un espresso dopo l’altro pur di rivederla: “Sto piglianno cafè senza sparagno/cinco o se’ vote dinto a la iurnata,/sto perdenno lu suonno e nun me lagno... Quanto vurria sapé che nomme tene!”. Non glielo chiese mai, altrimenti il poetico gioco non avrebbe potuto continuare.

 

 

 

Ma adesso, nell’attesa, cosa si fa. Adesso se è vero che il caffè (com’è probabile) lo bevono anche i fantasmi, grazie all’aroma che ascende, il poeta Di Giacomo s’è accomodato a un tavolo con l’ex cameriere Capaldo e l’ingegner De Crescenzo. A un altro più in là, da solo per non venire disturbato, siede l’affaticato scrittore Francesco Mastriani, il quale usava un piccolo Caffè di via Foria a mo’ d’ufficio come J.K. Rowling il pub di Edimburgo per creare Harry Potter. C’è un posto d’obbligo per Eduardo Scarpetta, l’autore di Miseria e nobiltà che regnò a lungo sui teatri, ma ora il suo fantasma si strugge di noia essendo chiuse tutte le sale: sarà cliente ad honorem del Caffè, perché nell’edizione completa delle sue commedie nomina il vocabolo, a indicare la bevanda o il locale, ben 108 volte. Seduto accanto a lui s’è messo il figlio naturale Eduardo De Filippo, in omaggio – è proprio il caso – alla commedia Questi fantasmi!, in cui nei panni dello svagato protagonista svelava i trucchi per la preparazione del caffè al dirimpettaio professor Santanna. Al banco, dando volutamente le spalle a Eduardo per un’ostilità reciproca che si prolunga nell’aldilà, suo fratello Peppino continua ad ascoltare da Totò la parabola dello zucchero e a bere amaro l’espresso. Ciascuno però affolli degli avventori preferiti il proprio Caffè Purgatorio, come Camilo José Cela fece con La Colmena nella Madrid anni Quaranta. Ci metta certi amici che se ne sono andati più presto, ci metta i genitori e addirittura quel professore antipatico dei tempi di scuola, giusto per il gusto di farlo servire da ultimo, mentre il tavolo migliore è riservato a quel perduto amore che l’invecchiamento (purtroppo) non poté sciupare.

 

Da fuori, nell’aldiqua, restiamo tutti noi immeschiniti vivi, che a differenza loro non ci possiamo assembrare e indugiamo invidiosi a osservare i fantasmi, noi col bicchiere di plastica in mano, bustina di zucchero, tovagliolino e paletta. Macchiandoci spesso con qualche schizzo la mascherina sanitaria, perché solo due mani teniamo per tutta questa roba. Rimuginando per ripicca che se a questa è ridotta la cultura del caffè, fanno bene all’Unesco a preferirle le danze etniche della minoranza vietnamita, i canti bulgari o la rumba del Congo. Più di un anno passato così, d’altra parte, mica poteva renderci migliori.

 

P.S: sosteneva da giovane Alberto Arbasino che se qualcuno, in un racconto come nella vita, dice che va di là a fare il caffè, quando torna non ce lo trova più perché gli fa perdere tempo. Riferiva il giornalista Vittorio Paliotti (stessa classe del vogherese: 1930) che Capaldo, agonizzante, chiese alla moglie Pasqualina un caffè. Ma quando lei riapparve dalla cucina con la tazza, lui se n’era già andato. Che sciccheria fu questo finale della storia: da “One more cup of coffee before I go / To the valley below” come scriveva Dylan. Meno elegante fu Renato Bialetti, imprenditore piemontese: le sue ceneri cinque anni fa furono pressate nell’invenzione di famiglia, una Mokona, sistemata davanti all’altare per la celebrazione dei funerali. Omaggio bizzarro che chissà non faccia punteggio presso la celeste burocrazia dell’Unesco.

 

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