Il Battistero della Città ideale e quello della città reale in lockdown. Mai così vicina al modello, eppure lontana dal vissuto (foto: Wikimedia/LaPresse)

Verso la città del futuro

Fare centro, fuori dagli schemi: la grande sfida di Firenze

Francesco Gottardi

La crisi ha travolto l’area Unesco, resistono le periferie: “Esportare la cultura per respingere il luna park”, l’appello degli Uffizi. Idee per uno sviluppo integrato e sostenibile: dalle vecchie prigioni alla nuova casa della musica, il racconto dei protagonisti

Città ideale fu. Non è un caso, se nella più celebre e astratta rappresentazione urbana del Rinascimento, l’unica traccia di concretezza è un richiamo a Firenze. Il Battistero, al centro. Nel dipinto e nella realtà, ieri come oggi. Ma quel centro – geografico, culturale e abitativo e socioeconomico – ha visto erodere le sue funzioni nel tempo, fino a diventare la splendida scatola vuota rivelata dalla pandemia. Nei primi otto mesi di 2020 Firenze ha perso l’8,1 per cento dei suoi lavoratori dipendenti rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (fonte Irpet): è la risultante fra il crollo verticale dell’area Unesco (-16,1 per cento) e il calo contenuto (-4,9 contro il -4,3 dell’intera Toscana) nelle zone circostanti della città. Siamo a uno spartiacque. Il residuo mediceo, travolto dal turismo di massa, si aggrappa alla cerniera di periferia dinamica. O trova nuove energie sociali, o fa la fine di Venezia.

 

È la parola che riecheggia dalle Gallerie degli Uffizi. “Lockdown significa reinventarsi: sfruttare le strategie di comunicazione a distanza per mantenere vivo l’interesse delle persone e arrivare pronti alla ripartenza”, il direttore Eike Schmidt apre la via. Dallo strumento – la digitalizzazione – allo scopo – la sostenibilità civica della cultura: “L’arte riprodotta dalla tecnologia rende le opere più accessibili e democratiche. Inoltre i dati ci stanno dicendo che il fac-simile non impigrisce il fruitore, ma anzi lo spinge a cercare l’originale. Perché il tablet è un accessorio che non sostituirà mai la componente emotiva dell’esperienza reale”. Gli Uffizi sono il terzo sito italiano per visitatori dopo il Colosseo e Pompei. Senza dubbio – né area archeologica né città fantasma – il più dialettico con la comunità. “Firenze è ad alto rischio di disneyzzazione”, ammette Schmidt, in carica dal 2015, “ma per quanto i musei siano tra i principali target del disequilibrio turistico, questi fanno parte in primis della vita locale. Penso alla caffetteria, alle biblioteche, alle sale conferenze delle nostre Gallerie: non servizi aggiuntivi, ma fondamentali vettori di socialità”.

 

   

 

Ben oltre il centro storico. “Il futuro di Firenze deve partire dalle periferie”, non ha dubbi il numero uno degli Uffizi. “Occorre una visione integrata, olistica. E a differenza di Venezia, circondata dall’acqua, la città d’arte sull’Arno ha un vantaggio naturale: la continuità urbana con le sue zone produttive e densamente popolate. Ma carenti di offerta culturale. Questa è la leva per poter rivitalizzare il Duomo e Ponte Vecchio: iniziative sistematiche per i sobborghi, che ne aumentino l’appeal fino a renderli dei veri subcentri. Permettendo così, dal punto di vista residenziale, di trasformare il centro stesso in una periferia attiva”.

 

La cittadella scarcerata

 

  

Piazza delle Murate dopo la trasformazione urbanistica dell'area (foto: Wikipedia)

 

Quello di Schmidt è un piano affascinante, che implica il recupero funzionale di vasti complessi edilizi. Nella sua storia recente, Firenze ha già dimostrato di saperlo fare. Là dove pareva impossibile. Lungo le Murate, il silenzio del coprifuoco riporta all’antica tetraggine dei primi anni ‘80. Quando tutto era ancora carcere: “Trovammo uno spazio enorme – oltre 14mila m² – abbandonato da quasi un ventennio. Angusto, formato da una griglia di muri spessi un metro e celle minuscole: prima dell’istituto di pena era stato un monastero. Noi avremmo dovuto convertirlo in residenza. E renderlo per la prima volta accessibile ai fiorentini”. Chi parla è Mario Pittalis, l’architetto responsabile dell’unità operativa che si occupò del programma Murate e già project manager dello Spallanzani a Roma. “L’idea arrivò quasi per caso”, racconta oggi per il Foglio. “Alla Toscana arrivarono circa 50 miliardi di lire degli ex fondi Gescal, destinati a interventi in aree pubbliche abbandonate. Si decise allora di puntare sulle Murate: non tanto perché l’operazione sembrasse fattibile, ma perché queste erano forse l’unico tessuto con le dimensioni sufficienti da assorbire tali risorse. Il resto lo fece la forte visione sociale di un sindaco come Mario Primicerio”.

 

Reminder: le Murate – fatto straordinario nell’Italia contemporanea – sono un esemplare intervento di edilizia interamente pubblica. “E infatti quanti pregiudizi, ci chiamavano ‘geometroni’: dall’esterno chi poteva credere in un team così?” 12 fra architetti e ingegneri under 35, più un gruppo di funzionari del comune. “Così Primicerio ebbe l’intuizione geniale di far patrocinare l’iniziativa da Renzo Piano, allora ambasciatore per l’Unesco. Fu il grande nome che ci diede la necessaria copertura culturale. Ma la sfida fu vinta, in 13 anni di cantiere, perché eseguita nello spirito della burocrazia servente: senza ambizioni speculative, tutti al lavoro per cifre ridotte e credendo davvero in ciò che sarebbe stato”. Piazza delle Murate, oggi: case per cento famiglie più la foresteria, un ristorante, il Caffè letterario, un centro per l’arte contemporanea e la Fondazione Kennedy per i diritti umani. “È un’autentica cittadella, amatissima fra i fiorentini”, la ripercorre Pittalis. “Offre riparo, lavoro. E soprattutto frequentazione sociale, dichiaratamente orientata ai giovani: in tempi pre-Covid parliamo di centinaia di migliaia di avventori all’anno. Un indotto enorme”.

 

Pubblica orchestra

 

 

L'Opera di Firenze (foto: Studio ABDR/Luigi Filetici)

 

All’estremo opposto del centro storico, la musica potrebbe presto essere la stessa. In una nuova dimora, e quella c’è già dal 2014: l’Opera come punto nevralgico attorno a cui rilanciare Firenze ovest, zona Leopolda. “C’è un grande potenziale di rivalutazione urbanistica”, interviene Paolo Desideri, architetto e progettista del teatro polifunzionale da duemila posti. “Innesti residenziali, opere pubbliche per il completamento del piano culturale comune. In sinergia con l’input che abbiamo dato: ora la città d’arte per eccellenza ha anche una dimensione lirica internazionale”. Realizzata in tempo di record: “Opera suonante in 23 mesi. È una struttura saggia, che supera la falsa dialettica moderno-antico attraverso materiali concertati e marcatamente territoriali: cotto d’Impruneta, marmo cipollino del Battistero, oro zecchino mediceo. E poi la risposta acustica…” Desideri ricorda la suspence del momento clou: “La prova generale in vista dell’apertura. Si scelse il primo movimento della Nona di Beethoven. Ultimo colpo di bacchetta, silenzio. E sollievo: ‘Bravo architetto’, mi disse l’orchestra, ‘ha fatto un grande strumento musicale’. Pochi giorni dopo Abbado fece cose straordinarie. Con i fiorentini ad applaudire l’erede del vecchio teatro comunale”.

 

  

 

Punto d’incontro con le Murate: anche l’Opera è a forte trazione pubblica. “I 150 anni dell’unità d’Italia offrirono il pretesto per un finanziamento da 220 milioni”, continua Desideri. “Da lì è seguito un percorso programmatico netto, senza intoppi. Non è utopia: la nostra Pa può essere virtuosa e integrata, dallo stato alle autorità locali. Ma finché non si darà inizio a una riforma organica del sistema, che oltre i tagli preveda un reinvestimento nel pubblico per valorizzare il privato, le storie di successo si continueranno a dileguare nel mare magnum delle inefficienze. Le occasioni per darvi continuità ci sarebbero, già nella stessa Firenze. Ma sulla rifunzionalizzazione del territorio siamo indietro”. Il teatro e l’ex carcere si trovano lungo il perimetro dell’area Unesco, dove sono maggiori gli incentivi – il prossimo big match si chiama ex convento di Sant’Orsola – ma anche i vincoli strutturali. È il momento di cavalcare le forze centrifughe invocate dagli Uffizi: “Lo stadio Franchi, la ex Manifattura Tabacchi. Sono spazi sconfinati”, Pittalis fa eco al collega. “Il grande problema è che la trasformazione urbana non ha più dei sistematici canali di finanziamento, finendo per venire dominata dai singoli investitori: eppure gli interventi che influiscono sulla vita dei cittadini – vale sin dall'età di Pericle – devono avere una regia pubblica. E questa spesso non collima con il solo spontaneismo privato. Per invertire il trend serve maggior coscienza sociale: non possiamo sprecare questa crisi”.

 

Quale città essere?

 

   

Una giornata di agosto 2020 in via de' Neri (foto: Google Street View)

 

La realtà dà forma al dibattito. Bastano due passi in via de’ Neri, storica arteria della manifattura e degli alimenti tipici – Borg’unto, ormai lo chiamano – che le paninerie odierne sembravano perpetuare in una spessa patina brulicante. Spazzata via a colpi di Covid. Chi resiste – davvero, senza reclami – è lontano, oltre le mura medievali: il tessuto urbano legato a industria meccanica e costruzioni, magazzinaggio e trasporti. Solido e anonimo, finora. La questione di fondo è identitaria: quale città vuole essere Firenze? “Un luogo dell’innovazione, fra crescita sostenibile e inclusione sociale”, risponde Sabrina Iommi, funzionario di ricerca dell’Irpet per l’analisi territoriale e sociodemografica dello sviluppo. “Il crollo del turismo deve spingere Firenze a riappropriarsi di questa posizione, facendo da traino all’economia regionale di una Toscana policentrica. Per riuscirci sarà necessario puntare su nuovi modelli di produzione e consumo, orientati alle periferie: e-commerce, telemedicina, aree coworking. Il primo ripensamento dovrà arrivare dal settore pubblico, poi anche dalla collaborazione dei privati. Ma intravedo”, sottolinea con fiducia, “un percorso di alta specializzazione che si basa sul Dna di questa città. Capace di unire forza tecnologica e valore culturale internazionale: è nella continuità urbana fra passato, presente e futuro che si trova l’equilibrio”.

 

A volte, quando nemmeno te l’aspetti. È notte, lontano c’è festa. Un angolo di silenzio richiama discreto: “Arrivai in quella che era una piazza pubblica solo da poche ore”, di nuovo l’architetto delle Murate, appena prima dell’inaugurazione ufficiale del quartiere. “Lì appartati, trovai un ragazzo e una ragazza: per dichiararsi il loro amore avevano scelto quel luogo, che era stato di reclusione e sofferenza. Allora realizzai davvero cosa eravamo riusciti a fare”. Via dai lucchetti sul Lungarno, dove lo spazio è da riempire e la storia ancora da scrivere, Firenze aspetta il prossimo bacio furtivo.