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Negro, tu devi pagare

Sandro Veronesi e Jean-Jacques Ilunga

Il razzista non ti sceglie mai come un capro espiatorio. Ti seleziona quando è sicuro che sei debole e si trova in condizione di trasformarti in uno scarto. Dialogo tra uno scrittore e un prete di colore, “nord africano”, su cosa vuol dire fare politica sulla pelle delle persone. Viaggio nella stanza dell’invisibile

Nel procurarmi materiale per lavorare a un lungo pezzo commissionatomi da questo giornale, lo scorso 21 gennaio mando questo messaggio whatsapp al mio amico Jean-Jacques: “Ciao, JJ, come va? Sto scrivendo un piccolo saggio intitolato "Nero", e alla fine ovviamente parlo anche di negritudine. Ti va di dirmi due cose su come ti sei sentito, tu, uno dei primi neri, se non proprio il primo, a girare per le strade di Prato? Ti citerei, anche in forma anonima, se preferisci, cioè senza dire né far capire che si tratta di te. Insomma, i pensieri del primo negro che gira tra i bianchi. Il loro stupore, la loro paura, il loro razzismo”. Poche ore dopo ricevo la sua risposta: “Volentieri caro mio Sandro. Appena possibile ti invio qualcosa. Un abbraccio”.

   

  

La gente mi vedeva camminare per la strada e gli adulti e gli anziani mi chiamavano “Pelé”. Poi però arrivai in quel bar

Jean-Jacques Ilunga è il mio amico prete, parroco a Prato, nel quartiere di San Paolo. Nato nel 1961 in Congo, a Mwene Ditu, nel Kasai, a pochi km da Mbuji Mayi, la capitale del diamante, è arrivato in Italia, a Roma, nell'aprile 1981, nel giorno di Santa Caterina da Siena, cioè il 29 aprile. Ordinato sacerdote nel 1988, ha conseguito una Laurea in Teologia alla Pontificia Università Gregoriana nel 1991 e una specializzazione in Antropologia nel 1996. Da oltre vent’anni svolge la sua attività pastorale presso la Diocesi di Prato. Ha pubblicato quattro libri: Accarezzare le mani, Jouvence, 2003; Come scende la Senna, MMC Edizioni, 2006; Violino senza corde, Jouvence, 2012; Fiori per me che profumo. Gli esorcismi di Padre Ismael, Fandango Libri, 2013.

 

Passano un paio di settimane, io raccolgo tutto il materiale e da lui non arriva niente. Poiché so quanto il lavoro in parrocchia lo tenga occupato, decido di non disturbarlo oltre e scrivo il mio testo senza il suo contributo. Pazienza, mi dico. Qualcosa sapevo, di ciò che mi avrebbe detto, e altro mi incuriosiva, ma insomma, oh, se non aveva potuto non aveva potuto. Scrivo il pezzo, lo consegno e non ci penso più. Ma il giorno prima della pubblicazione, avvenuta sul Foglio di lunedì 11 febbraio, ricevo via mail questa incredibile lettera, che non avrei mai potuto leggere io solo, sarebbe stato un vero delitto. Specie in questi giorni d’estate, nei quali gli africani tornano a disturbare le nostre vacanze con la loro pretesa di essere sbarcati in un porto sicuro dopo un naufragio, di non essere ricondotti a forza nel lager libico dal quale sono appena fuggiti o di non essere confusi con dei cittadini statunitensi che hanno commesso un omicidio. E’ certo che dietro a tutti gli africani che ogni giorno, con mille pretesti, vengono strumentalizzati dalla feroce propaganda di regime, vi sia una storia peggiore di quella raccontata dal mio amico Jean-Jacques – ma soprattutto che molto peggiore della sua, purtroppo, sia la storia che hanno davanti.

  

Sandro Veronesi

 

Mio caro Sandro,

oggi voglio raccontarti due episodi che non ho mai raccontato a nessuno prima di oggi. Sai che provengo da una delle etnie più esuberanti dell’Africa nera, i così detti “Bantu”. Le etnie vicine alla mia giurano che noi “Bantu” non saremo mai ricchi perché pur avendo oro e diamanti, petrolio e le terre rare, ci manca l’odio per i Bianchi.

  

A noi “Bantu”, puoi dire tutto, perché non ci ferisce l’insulto, nemmeno quello più grande, ma la verità. Tra la mia gente fa più male dire ad una persona: “Sei un infelice”. Dire a qualcuno che è infelice fa malissimo perché significa augurargli di restare così per tutta la vita. Vuol dire che quella persona ha fallito, è incapace e si deve vergognare d’essere al di sotto delle sue aspirazioni.

  

Non posso però negare che in Africa, in qualche angolo nascosto, ci sia il razzismo dei neri che odiano i bianchi, quel razzismo che consiste nell’insultare l’altro, predicare l’inferiorità culturale, intellettiva, spirituale, morale dell’altro. Ovunque esiste quel razzismo che consiste nel non guardare l’altro e quindi non riconoscerlo, nel trattare una persona con disprezzo, sommergerlo fino a farlo scomparire sotto strati e strati di giudizi negativi.

 

Quando lui si muove, non perde tempo umiliandoti perché sei povero, punta sull’orgoglio, cerca l’offesa sull’origine e sul tuo colore

Essendo un “mtu”, anche quando sono stato sommerso dal disprezzo, non ho mai dubitato di avere il mio posto nel mondo. La storia della mia famiglia e della mia razza mi ha conferito una dignità e una grandezza che nessuno potrà mai cancellare. Sono iscritto nella genealogia di persone valorose con una millenaria tradizione di coraggio e carattere. Ti voglio raccontare soprattutto di un colloquio con un signore della “Prato bene”, molto distinto, ricco, colto e razzista che bussava spessissimo alla mia porta, si accomodava e metteva a durissima prova la mia pazienza chiedendomi se non trovavo disgustoso l’odore predominante della pelle nera, cosa provavo alla vista delle scimmiette nello zoo, se non avevo mai provato a schiarirmi la pelle, cosa preferivo tra diventare bianco o ricco?

  

Se vuoi ti dirò anche il nome di questa persona, anche se da qualche anno è deceduta – la sua anima riposi in pace. Il caso ha voluto che lo accompagnassi proprio io anche alla sua ultima destinazione.

  

Ho viaggiato tantissimo nella mia vita e maturato alcune certezze circa il razzismo. So che il “razzista” non ti sceglie mai a caso come si sceglie a caso un capro espiatorio. Ti seleziona quando è sicuro che sei debole mentre lui si trova in condizione di farti veramente male. Il razzista è consapevole che un giorno potrebbe toccare a lui diventare fragile e ritrovarsi nella condizione più bassa della scala umana. Quando si muove, non perde quindi tempo umiliandoti perché sei povero, punta sull’orgoglio, cerca l’offesa sull’origine e il colore della pelle, gli piace farti sentire “lo scarto”.

  

  


Lettera a un amico razzista. “Chi assume un atteggiamento razzista è uno che pensa che ci sia un solo modo di essere uomini”. Un parroco di colore e la sua storia truce e allegra nell’Italia invisibile


  

Ho scelto di stabilirmi a Prato quando nessuno s’immaginava che le persone di “colore” sarebbero venute in massa a vivere qui. Forse per questo il primo impatto non è stato facile. La gente mi vedeva camminare per le strade del centro di Prato e quindi gli adulti e gli anziani mi chiamavano “Pelé”, molti mi ritrovavano anche come supplente in una scuola superiore. Mi guardavano e sorridevano. Il sorriso solitamente significa accettazione, quindi sorridevo anch’io. Tutti i curiosi volevano sapere se venivo dalla Somalia, facevo risorgere le memorie dei loro viaggi esotici. E quando mi avvicinavo di più e condividevo dei momenti con i nativi pratesi, sentivo dire: “Mangia, parla, come noi…”.

  

Ma la cosa più divertente era: “Piange anche lui…”.

  

“Sono stato plasmato dal fervore delle madri africane, la passione degli uomini dalle spalle larghe, duri e ostinati, dalla perversità della cultura patriarcale: da loro ho imparato che essere nero è un segreto circondato dalla bellezza del silenzio, la virtù dell’ardore, la luce”

A differenza della Francia o del Belgio, man mano che passavano i miei giorni pratesi, perché bruscamente erano arrivate tante altre persone di colore, i “vu’ cumprà”, mi imbattevo sempre più in un ostracismo di persone che alla soglia del nuovo millennio dovevano arrendersi all’idea di condividere lo spazio con i “negri”, persone che non avevano rispetto per se stessi e quindi non potevano averlo per me, persone prive d’eleganza, pronte a ridere e a offendere gratuitamente. Persone non preparate, non attrezzate e che dovevano trovare velocemente l’antidoto all’invasione nera.

   

Prima di me e di altri immigrati di colore, c’erano soltanto dei film (“Indovina chi viene a cena”) e delle canzonette (“Siamo watutsi”).

  

Con l’inizio degli anni ottanta, alla vista di un immigrato che prende possesso di una cattedra scolastica e della responsabilità di una parrocchia, costretti ad accettare la realtà dei fatti, alcuni “pratesi doc” e gli allergici alla mescolanza si limitavano a ripetere: “Non c’è più religione…”. Qualcun altro reagì in maniera violenta. Quante volte ho discusso con loro!

  

E' un dialogo tra sordi quando si parla con persone aggrappate al fatto per loro inconvertibile ma per me casuale di essere bianchi o neri. Negli occhi miei c’era la gioia d’esser nero, loro erano sollevati di non poter più cambiare colore, anche se rimanendo nel loro colore di pelle bianca sapevano benissimo che potevano oscillare tra una miseria e l’altra, diventare poveri e disgraziati. Però erano fieri d’esser scampati alla tragedia più tremenda: esser negri. Ho sentito qualcuno benedire e ringraziare Dio, come in quella preghiera ebrea, di non essere non-ebreo, schiavo e donna. Perché ovunque sarebbe andato, indipendentemente dalla sua condizione, sarebbe stato per sempre un essere superiore.

   

Il primo episodio che ti volevo raccontare è il seguente.

  

Entro in un bar del centro storico di Prato. Mi rivolgo al barista per chiedere di cambiarmi i soldi e darmi dei pezzi piccoli che mi servivano. Lui mi risponde che non lo può fare gratuitamente. “Devi consumare un caffè al banco oppure andare in bagno pagando 500 lire”. Infatti c’erano ancora le lire. Scelgo di andare in bagno. “Però non lasciare la puzza nel bagno”, mi dice. Tranquillo, faccio solo pipì. “Okay”, mi risponde. “Dammi i soldi”. Gli tendo le diecimila lire. Lui mi chiede di posarle sul banco del bar. Senza toccare i miei soldi, vi mette accanto la chiave del bagno. Prendo le chiavi ed entro in bagno. Tempo un minuto, esco fuori e chiudo la porta. Il barista sta preparando un caffè a un cliente. I miei soldi sono sempre lì. Metto le chiavi dove le avevo prese e aspetto il resto in spiccioli come avevo chiesto. A quel punto il barista chiama un ragazzo che si chiama Massimo e gli chiede di controllare se avevo lasciato pulito il bagno.

  

Massimo, senza nemmeno essersi alzato dalla sedia, gli risponde dicendo che “la scimmia” ha lasciato la pipì per terra e ha anche sputato nel lavandino. “Ah! Sì… ?”.

  

Il barista mi guarda e dichiara che oltre il prezzo per l’uso del bagno, dovrà trattenere altri cinquemila lire per lo sporco che avevo lasciato nel suo bagno. La gente nel bar ride. Anche il barista ride. La cosa mi conforta e mi predispone a stare allo scherzo. Io protesto, con un tono scherzoso. Massimo si alza e si avvicina a me. “Ehi… non vuoi pagare?”. Gli rispondo che non vedo perché dovrei pagare. Ho lasciato il bagno come l’avevo trovato. E poi, scusa, come fai a sapere che sono stato io? La sua replica è: “Voi negri siete sudici e vomitevoli sempre”. Io gli dico: Questa è una tua opinione. Guardo il barista e gli dico (seriamente): “Se non volete scambiarmi i soldi basta dirlo”. “No, no, no… tu devi pagare”. Io non pago un bel niente. “Okay…”. Massimo prende il biglietto e sputa abbondantemente sui miei soldi. Tutti ridono. Quei soldi sono tutto quello che ho. Non ho scelta. Li devo prendere, li avrei presi anche se invece di sputarci sopra avesse fatto di peggio. Cerco il modo di ripulirli con il mio fazzoletto di stoffa che ho in tasca. Da quel giorno uso solo fazzoletti di carta. Esco trattenendo nel petto tutta la rabbia che ho dentro. “Ciao scimmia, non riportare mai più la tua puzza qui dentro”.

   

Vedo un altro bar poco lontano. Vi entro con le lacrime agli occhi. E' stato quel giorno che ho conosciuto una delle persone più belle del mondo, soprannominato “Il sindaco”. Gli racconto ciò che mi era appena successo. Lui si toglie il suo grembiule e prende le mie diecimila lire e mi dice di aspettare. Si dirige verso il bar dove ero stato umiliato e si fa dare dei soldi spiccioli. Con Michele “il Sindaco” ho condiviso l’impegno e la lotta in difesa dei primi albanesi che fuggivano la miseria e che erano arrivati in città; nel suo “Caffè del Teatro” ho presentato il mio primo libro “Accarezzare le mani” e soprattutto insieme abbiamo organizzato delle serate culturali tra cui la lettura delle poesie scritte da una ragazza nigeriana costretta a prostituirsi.

  

“Massimo, senza nemmeno essersi alzato dalla sedia, gli risponde dicendo che “la scimmia” ha lasciato la pipì per terra e ha anche sputato nel lavandino. “Ah! Sì… ?”. Passa il tempo e poi tutto diventa chiaro: “Ciao scimmia, non riportare mai più la tua puzza qui dentro”

La cosa che mi ha fatto male quel giorno, come quando fui aggredito, insultato pesantemente e umiliato da un ciclista davanti alla chiesa di Migliana è sempre stato il veder ridere la gente che assiste ad una scena così disumana senza muovere un dito. La differenza nella valutazione delle situazioni vissute altrove e in Italia è principalmente in questo immobilismo di chi guarda. Il mio disorientamento è sempre stato grande anche perché non riesco mai a dissociare la grande cultura con le buone maniere, e di più ancora la fede con la giustizia e la difesa di chi si trova in difficoltà. Da questo episodio a quello della coppia che rifiuta di farsi sposare dal negro, dalla bottiglia spaccata in testa (seguita da una denuncia e da un processo dove il Tribunale di Prato mi rifiuta di ritenere l’aggravante razzista) agli sputi di un automobilista… ho imparato a riconoscere le persone e le situazioni potenzialmente pericolose, a stare zitto (festeggio il mio quindicesimo anno che non finisco sui giornali per fatti di aggressione di tipo razzista) e a difendermi in altri modi.

  

La mia opinione è che, concentrandosi in un solo cuore la repulsione verso neri, ebrei, zingari e omosessuali, i razzisti abbiano sbagliato pianeta. Poi scelgono anche di mostrarsi molto amichevoli, sono amici calorosi, pronti a tutto per le persone alle quali vogliono bene… ma è disperazione. Alcuni di loro sono cristiani convinti e capaci di gesti plateali e di carità fragorosa. Ma ci tengono al fatto che ogni negro debba sentirsi inferiore.

  

Chi assume un atteggiamento razzista è uno che pensa che ci sia un solo modo di essere uomini: essere bianchi oppure non essere. Si può essere ricchi o poveri, istruiti oppure analfabeti, onesti oppure incoerenti, sfortunati o ignoranti… tutto questo non conta, l’importante è essere bianchi. Anzi, l’essere bianchi è l’unico modo d’essere, la condizione ontologica, mentre l’essere uomini viene considerato quasi una casualità, come lo è l’essere poveri o ricchi. Un pensiero radicato per loro.

  

E' altrettanto radicata in me l’idea che non ci sia bisogno né di filosofia né di teologia e tanto meno di scienza per spiegare e far capire a chi non accetta la diversità e per capriccio vorrebbe costringere la natura a cambiare il suo modo di procedere, per seguire l’idea più restrittiva e impoverirsi. Siamo diversi perché la natura è ricca e illimitata. Non saranno il nostro disagio oppure il nostro egoismo a deprimere la natura e farle venire ripensamenti e sensi di colpa.

  

“La diversità è il fondamento dell’uguaglianza. Non voglio fermarmi alle parole, perché io stesso ho paragonato alcune persone della mia stessa razza alle bestie quando commettono crimini che nemmeno un animale senza cervello farebbe”

Ho partecipato a tanti dibattiti sul tema del razzismo e dell’immigrazione, dialogo spesso con i giovani nelle assemblee scolastiche… Tutti a dire: “Non siamo razzisti, gli insulti, i cori negli stadi, le barzellette… sono bischerate, tutt’al più codardia. Niente di più”. Tutti a dire di non essere razzisti, lo dico con il timore di cadere nel vittimismo, di essere io stesso più razzista dei razzisti. E' facile passare dal lamento alla gioia d’essere un uomo nero con la pelle più liscia di quella dei nemici, passare dall’esser disprezzato al troppo amore per se stessi. Quando ero studente di Teologia a Roma, un compagno di seminario si avvicinò a me e mi disse: “Senti amico, io parlo spessissimo di te alla mia famiglia, ai miei zii e ai cugini. Ora mia nonna ha più di 80 anni, ha espresso il desiderio di non morire senza aver mai visto da vicino un nero. Insieme ai miei genitori abbiamo pensato di invitarti a casa nostra. Conoscendo le tue difficoltà economiche, ti paghiamo noi il biglietto delle nave.”

   

Divertito e incuriosito da questa richiesta, accetto. Arrivati in Sardegna, in un paesino piccolissimo con decine di abitanti, prima di accogliermi nella casa paterna, il mio amico mi fa sostare nella casa di un altro suo parente che stava di fronte. Così la vecchia nonna poté guardarmi da una finestra e decidere lei d’incontrarmi quando era pronta.

   

Il giorno dopo, avvenne il primo contatto ravvicinato con la nonna. Ricordo la perplessità negli occhi dell’anziana signora che tremava come una foglia per l’emozione o forse la paura. Vent’anni prima, in situazione diversa e ruoli invertiti, avevo vissuto quasi la stessa esperienza, vedendo per la prima volta un albino. In Africa, nascere albino è la peggiore delle disgrazie. In alcune tribù gli albini vengono letteralmente uccisi perché considerati come dei demoni, come la causa delle sciagure.

   

Ero piccolo il giorno che strinsi per la prima volta la mano di questo amico dalla pelle bianchissima che viveva sempre nascosto dentro casa ed ero stato preparato da un piccolo stratagemma di mio padre. Visto che circolavano le voci secondo le quali toccare gli albini era una maledizione, mio padre ci aveva educati dicendoci che la maledizione cadeva su chi non accettava di stringere la mano agli albini. Poi ho scoperto che la mia vita non era né migliorata né peggiorata avendo toccato un albino, e non era cambiato né in bene né in peggio nemmeno quella di chi non si avvicinava ad un albino, ho capito quanto la paura fosse sbagliata.

   

Come ti dicevo, caro Sandro, ho pianto una volta lacrime rosse e salatissime. E mi sono chiesto se non avevo una deformazione, un difetto, una pretesa troppo grande che facesse imbestialire le altre persone… Non ho mai pensato di avere né un cervello superiore né un cuore grande dove facilmente entra “l’universale”, non mi sono mai vantato d’essere la fortuna di ogni altro essere umano, la risposta a ogni sua domanda muta… Cammino come un fiume silenzioso verso il mio destino, con tutta la sicurezza che può contenere il cuore di un uomo. Se questa è una deformazione, preferisco questa a quella di coloro che mi disprezzano.

   

“Piangere due o tre volte è poco in confronto a quello che avrebbero voluto i miei denigratori. Chi mi insulta perde tempo. Il razzismo non ce l’ho io. E’ un virus che rode il loro cuore, che esiste nella testa di chi lo professa. Fa male solo perché è collegato a due problemi veramente gravi: la violenza e l’ingiustizia”

Sono sempre più convinto che tutto dipende da come ogni persona vede se stesso. Chi non ha rispetto di se stesso, non può averlo per gli altri... Se uno non è capace di cogliere la propria sostanza e quindi si ferma all’aspetto esteriore, quindi alle caratteristiche della sostanza, penserà che gli altri sono bassi, brutti, etc… Se uno è convinto che l’altro abbia meno valore in base a criteri di perfezione e bellezza, e pensa addirittura che un’altra persona sia un disturbo, quella persona disprezza se stesso. A conti fatti, davvero non ho mai pianto perché una persona sghignazzava vedendomi passare oppure perché qualcuno mi faceva trovare le banane sul parabrezza della macchina. L’ho fatto con tutta l’amarezza del mondo solo quella volta quando un prete e una suora si sono rivolti a me in termini razzistici. Non solo perché erano prete e suora, ma soprattutto perché avrebbero dovuto essere “bugiardi”, fingere la carità, intelligentemente, e non l’hanno fatto. Potevano, in maniera soft, diluire il loro disprezzo nel silenzio, avvolgerlo in una carità falsa che ci contraddistingue e che allegramente accettiamo in quanto soggetti in cammino di conversione. Invece loro non mi hanno lasciato nemmeno nessuna illusione.

   

Per fare fronte a situazioni in cui ci si sente persi, quando non si è in grado di osservare una legge che si conosce bene, l’intelligenza consiste nel costringere se stessi a comportarsi giustamente anche solo per ipocrisia, come farebbe una persona che conosce, che “sa”. Ecco, loro, in quella occasione, non hanno attivato l’intelligenza.

    

Caro Sandro, sai come reagisco quando qualcuno m’insulta? Rido dentro di me. Non esiste una parola brutta detta da chi è razzista che non possa essere ritorta contro di lui. Le differenze tra esseri umani sono palesi, le particolarità vanno preservate, come i confronti, che sono inevitabili. Non deve dispiacere nemmeno la competizione tra le persone: essere primi, essere più forti, essere migliori degli altri… senza per questo disprezzare gli altri perché si appartiene alla razza dominatrice. La diversità è il fondamento dell’uguaglianza. Non voglio fermarmi alle parole, perché io stesso ho paragonato alcune persone della mia stessa razza alle bestie quando commettono crimini che nemmeno un animale senza cervello farebbe.

   

Ho pianto eccome! Ma la mia risposta anche in quella circostanza fu di non rinnegare le mie origini, la mia natura, e soprattutto farne un motivo di orgoglio. C’è una immagine, una foto che tanti negri amano follemente. La guardo e la riguardo, la vedo anche senza guardarla. E’ la foto di Martin Luther King appena assassinato che giace su un balcone… e tre dei suoi compagni hanno il dito puntato all’orizzonte. Naturalmente stanno indicando da dove è arrivato il colpo… Ma se pensi che chi ha sparato potrebbe freddare anche loro, il loro gesto significa puntare davvero l’orizzonte. Un gesto profetico oltre il coraggio, oltre la speranza. Sembrano dire: “Tu hai sparato. Okay. Hai ucciso il nostro leader. Okay. Ma noi andremo oltre il tuo gesto, dietro le tue spalle, perché hai squarciato il velo e aperto la porta del tempo, hai rinforzato le nostri convinzioni e la nostra fede.”

   

Piangere due o tre volte è poco in confronto a quello che avrebbero voluto i miei denigratori. Chi mi insulta perde tempo. Il razzismo non ce l’ho io. E' un virus che rode il loro cuore, che esiste nella testa di chi lo professa. Fa male solo perché è collegato a due problemi veramente gravi: la violenza e l’ingiustizia.

   

Ho pianto ma ho anche riso tanto. Ti volevo raccontare appunto questo. Per circa tre anni, ho avuto delle animatissime discussioni con un signore molto distinto che si presentava puntualmente alla mia porta, si faceva accogliere e lentamente snocciolava la sua litania razzista. La prima volta che mi ha umiliato, ho avuto la tentazione di spaccargli la sedia in testa. “Ma Lei, cosa prova quando guarda una scimmietta?”, mi chiese. “Quando la guardo allo zoo, provo compassione per l’animale, e un po’ di collera verso l’umanità”. “Mi interessa giustamente questa rabbia”. “Perché?”. “Sente quel maltrattamento sulla sua stessa pelle?”. “Non mi piacerebbe essere trattato così, francamente…”. “Quindi cosa prova verso la bestiola…”. “Un grandissimo sentimento di bene”. “Solo bene? Pensavo che provasse amore”. “In effetti, ora che mi ci fa pensare. Quello è il sentimento che dovrei avere. Ma le voglio raccontare una cosa. Prima di costruire la scuola, l’ospedale e la ferrovia, a Ganda, la mia città natale, i missionari hanno eretto in mezzo alle nostre baracche la statua di una santa, bianca, giovane e molto formosa… Fino a quel giorno, spuntavano in ogni angolo soltanto le tombe, con qualche maschera funeraria. Al centro del paesino un giorno all’improvviso, fu elevata questa statua di una santa con le tette e il sedere piccolo ma perfetto. Gli uomini facevano finta di non guardarla ma si ritrovavano tutti i giorni sotto una quercia per dilungarsi nel parlare per ore e ore, anche quando non c’era niente su cui discutere”.

   

Le Suore avevano insegnato alle nostre madri a passare in processione davanti alla santa prosperosa, prima di lasciare noi bambini a scuola. Dovevamo toccare le cosce della statua e farci il segno della croce. Credo che questa pratica abbia danneggiato i contorni dell’amore verso i miei “simili”. Mi sono sempre chiesto che tipo di pelle avesse l’“amico” razzista per non accusare mai il colpo. La pelle dura ce l’ho anche io. Quando è deceduto, questo amico ha lasciato detto di esser messo in bara senza scarpe. E così fu fatto. Ho fatto questa preghiera al Signore: “Vedi Signore, si è già tolto le scarpe, quindi è pronto per vivere in Africa. Mandalo lì per fargli provare cosa significhi essere nero”.

   

Sono stato plasmato dal fervore delle madri africane, la passione degli uomini dalle spalle larghe, duri e ostinati, dalla perversità della cultura patriarcale… da loro ho imparato che essere nero è un segreto circondato dalla bellezza del silenzio, la virtù dell’ardore, la luce. Esser nero è una “beatitudine”, un abisso di desideri colorati e di suoni, di pensieri semplici e limpidi e di forza interiore. Nero è la stanza dell’invisibile cui si vede l’ombra e le tracce.

    

Noi ci siamo lasciati schiavizzare per secoli e continueremo a farci umiliare per altri secoli, perché lasceremo sempre a chi vuole l’onore di conquistare gli spazi e di dominare il mondo. Perché c’è un altro modo, tutto negro, di essere e di vivere, che non è assoggettare o limitare, ma è un modo solidale di servire la vita e non lasciar svanire l’ebbrezza delle cose e la dignità delle persone. E' un modo d’essere semplicemente e profondamente uomini, per meritare ancor di più la vita e conquistarsi il rispetto della morte. E' la fedeltà a se stessi che rende l’uomo invincibile. Ovunque c’è fierezza della propria identità si forma lo scudo, la frontiera che difende l’umano. L’orgoglio di ciò che uno è, è la prova dell’indistruttibilità dell’uomo. E questo il modo d’essere che vogliamo raggiungere nel più profondo della nostra anima nera.

  

Un abbraccio,

Jean-Jacques Ilunga

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