Il romano ha molto da imparare da Milano, da una decade gli bastano tre ore di alta velocità per capirlo (nella foto LaPresse, studenti romani bloccano la stazione Termini durante un corte nel 2011)

I nostri Train de vie

Michele Masneri

Moltiplicazione di classi. Nuovi bipolarismi culturali. I treni veloci hanno cambiato l’Italia come Mike Bongiorno. Una fenomenologia

Al decennale scatta naturalmente lo stupore: “Come facevamo prima”; come con le invenzioni fondamentali tipo il quasi coetaneo iPhone. Le Ferrovie lo celebrano in questi giorni, con un film, un cortometraggio girato da Ferzan Ozpetek, che mette in scena vite ordinarie di controllori e macchinisti e piccoli passeggeri sulla metropolitana d’Italia. Sono i dieci anni del Frecciarossa, e le frecce sono in giro da soli dieci anni, han trasportato 300 milioni di passeggeri, ma è chiaro che han cambiato anche e soprattutto i caratteri nazionali: il romano che arriva con il suo smanicato e il gessato, scendendo dalla sua carrozza business del silenzio, non ha più quell’aria braccata.

 

Hanno trasportato 300 milioni di passeggeri, ma è chiaro che hanno cambiato anche e soprattutto i caratteri nazionali

Sarà il mai abbastanza ringraziato riscaldamento globale, che ha reso uguali i microclimi delle due città, compresa la scomparsa della nebbia, tema fondamentale di cui non si parla abbastanza (altro che scomparsa delle lucciole); che rende visibile quel bel cielo di Lombardia, eccetera. Le Frecce hanno agevolato, forse causato, anche la più grande fuga di cervelli da Roma che si sia registrata dall’epoca della caduta dell’Impero. Come vasi comunicanti, hanno risucchiato intere generazioni di romani che ora allignano in Lombardia, talvolta felici, talvolta abbrutiti. La metropolitana d’Italia, il claim che sta scritto sul fazzolettino umidificato, ha messo in evidenza le differenze. Ha creato il liberismo e la concorrenza. Vai dove stai meglio. Quindi non a Roma. Roma, svuotata di quel poco che le era rimasto, è ormai tutto cielo. La sera è un fondale di film. Forse diventerà una Berlino mediterranea degli anni Duemilaventi, con tanti giovani poveri e creativi, se continuerà il crollo del mercato immobiliare. L’unico vero reddito di cittadinanza dovrebbero darlo peraltro qui: vuoi davvero vivere a Roma? Il comune ti dà 2.000 euro al mese (1.000 fissi, il resto in base alla quota di buche del tuo quartiere e ai mesi di chiusura della metropolitana). L’emigrazione romana è netta, violenta. Il romano is the new pugliese. Gratta gratta, dietro un tassista milanese particolarmente leghista o aggressivo c’è sempre un romano.

 

Talvolta il clash è violento. In un episodio della fondamentale serie “Skam Italia”, il teenager protagonista, bipolare latente, sbrocca proprio ai piedi del Bosco Verticale, opera-mondo che ormai i tassisti (romani) ti segnalano al passaggio (“qui viveva la Ferragni”). Soprattutto i giovani hanno abbandonato la wilderness orizzontale che si sta inghiottendo Roma e adesso stanno a Milano a fare le loro Bocconi Iulm Marangoni, a lavorare nella consulenza o in qualunque altra cosa che non sia la politica e la Chiesa (unici due distretti rimasti a Roma), e poi vengono raggiunti da genitori in loden che dai Parioli scoprono finalmente lussi e understatement tipicamente lombardi, piccoli feticci: la panchetta del tram, parlare sottovoce al ristorante, andare all’Opera anzi alla Scala in metropolitana, mentre a Roma mai hanno messo piede sulla linea A o B o C. O sul bus Atac fiammeggiante. Si esaltano col mezzo pubblico democratico. E poi la grande tradizione delle ferramenta, un tema che piaceva molto ai romani anti-milanesi di un tempo. “Son stato a Milano due giorni, che incubo, però ho trovato quelle viti rarissime che cercavo da anni”. Cadorna è la nuova Knightsbridge. I giovani romani a Milano son carinissimi, vanno in Uber. I genitori gli comprano la casa, gli fanno la spesa al Peck, e poi tornano giù, a Roma, con dei rimpianti.

 

Mentre i più vecchi milanesi ormai non celano più il disprezzo verso la capitale: “Ma come fate a vivere a Roma?”; “ah sì, ci ho fatto scalo per Pantelleria”; e poi, definitivo: “Per me è un flyover”. Scomparso dunque per sempre quel detto sospetto, “la mejo cosa de Milano è er treno pe’ Roma”, che celebrava uno sconforto, e quello sconforto segnalava una nostalgia, un complesso di inferiorità. Le leggende metropolitane per cui “a Milano si va a letto presto”; “a Milano nessuno ti invita a casa”, vere forse negli anni Novanta ancora nebbiosi quando anche Salvatores celebrava la trilogia della fuga da Milano, e i pochi romani costretti prendevano casa tutti insieme in Ventiquattro Maggio, in Colonne, come per farsi compagnia, restare uniti.

 

Così sono cambiate le stazioni, diventate aeroporti, e i viaggiatori in smanicato. Sul treno veloce ognuno trova il suo interesse

Adesso, invece, sparsi, alla conquista della città, dalle Cinque Vie a Nolo a Fondazione Prada (col naming e branding aggressivo che a Milano ribattezza velocemente isolati e compound per venderli più velocemente). I romani a Milano esplorano, escono, corroborati dalle microdistanze, dal mezzo pubblico efficiente e interclassista, non gli par vero, visto che a Roma non si esce proprio più, altro che andare a letto presto. Spostarsi è impossibile, o hai l’Hummer per superare guadi tipo piazza Venezia, o stai a casa. Si rafforza il fattore tribale del quartiere: se hai un amico dall’altra parte della città lo perdi per sempre.

 

Al contrario, i milanesi quando scendono dal loro Freccia tendono a rimanere sempre in zona Stazione, al massimo Esquilino. Un po’ perché il quartiere della stazione è grande più o meno quanto l’intero comune di Milano; un po’ perché hanno paura, vogliono stare vicini alle vie di fuga, dunque vengono, vanno alle loro anteprime al cinema di piazza Repubblica, si fanno due stories, prendono alberghi anche fetidi ma attaccati al binario, e poi ripartono a ore antelucane.

 

Tanti cambiamenti anche linguistici: con una neolingua ferroviaria tutta da studiare: “I passeggeri sono pregati di deporre i bagagli nelle bagagliere di vestibolo”. Ah, le bagagliere di vestibolo. “Stiamo attendendo il via libera dal controllore dell’infrastruttura”; “un ritardo dovuto ad altra azienda”; la tendenza al barocco e all’irresponsabilità della lingua italiana ha trovato un terreno fertile in questi dieci anni. Gli annunci si susseguono, pedissequi, in una specie di catechismo che non solo dice i divieti ma ne spiega anche i motivi (non bisogna fumare “perché altrimenti gli irroratori irroreranno di liquidi antincendio”), e mentre istruisce di non parlare a voce troppo alta costituisce di per sé la fonte primaria di inquinamento acustico del vagone (però, anche, trucchi: mai prendere il convoglio diretto a Salerno se si è sensibili ai decibel). Gli italiani forse apprenderanno anche un po’ di inglese grazie agli annunci ripetuti con accenti cockney oppure molto americani (“treniteliaaa wishes you a pleasant journey”).

 

Cambieranno usi secolari, anche: i romani si abitueranno forse a non aver più freddo. I romani non si separano infatti mai dal loro smanicato: anche quando scendono dal Freccia, col loro zainetto, dopo che hanno strepitato tutto il tempo pure in Business del silenzio di cosa hanno mangiato la sera prima, cosa mangeranno oggi e cosa presumibilmente mangeranno domani (il cibo sta ai romani come la startup ai milanesi) hanno sempre il giubbetto smanicato. Anche in luglio. Forse retaggio genitoriale, degli antenati che anche nelle classi e nei quartieri alti girano comunque spesso con una specie di giacca multitasche, comunque terrorizzati dagli elementi, soprattutto il colpo di vento e la pioggia. Il romano teme le intemperie non perché sia un invertebrato ma perché sa che a Roma quando piove viene giù tutto, saltano gli appuntamenti, si aprono le voragini, arriva l’anarchia. A Roma è come a Stromboli. O su un’isola greca. Sei in balia degli elementi. “Partirà oggi l’aliscafo?”. “Passerà la metropolitana?”. “Se non c’è mare grosso, dottò”. Devi guardare fuori dalla finestra. Invece a Milano si abituano a una certa regolarità, prendono confidenza con la tecnica, abbandonano una certa religiosità panica. Poi, sarà difficile tornare indietro.

 

Scomparso dunque per sempre quel detto sospetto, “la mejo cosa de Milano è er treno pe’ Roma”, che celebrava sconforto e nostalgia

Gli effetti delle Frecce saranno poi da studiare anche sul lungo periodo su un popolo che, a parte l’unico caso delle ferie di Natale o d’Agosto, per cui è disposto a fare molte ore anche d’aereo, e nonostante gli slogan patetici – santi, navigatori, ecc. – notoriamente odia viaggiare, vivendo invece ogni trasferimento superiore ai venticinque chilometri come – parola amatissima – deportazione (la deportazione dei professori, dei postini, degli studenti). Il contrario insomma di inglesi e francesi che fanno i sabbatici, fondano colonie, prendono il mare (da noi è sempre cargo battente bandiera liberiana). Così il Freccia permette spostamenti e trasferimenti anche al popolo più stanziale e terrorizzato dalla separazione dalla ribollita e dalle penne di mamma.

 

Il Freccia permette spostamenti e trasferimenti anche al popolo più stanziale e terrorizzato dalla separazione dalla cucina di mamma

Così torna la vecchia idea: perché non istituzionalizzare la metropolitana d’Italia, con un bell’Erasmus sull’alta velocità? “I giovani vanno portati via prestissimo” scriveva Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, riferendosi a Palermo in tempi pre-Tav. Perché una volta che il carattere è formato, è fatta. Ma anche per Roma e Milano, non sarebbe mica male. Agli studenti romani, si potrebbe imporre di passare un anno di liceo a Milano, e viceversa. Si creerebbero generazioni di italiani diversi, sanando divisioni e complessi secolari, continuando l’opera unificatrice dell’Autostrada del Sole e di Mike Bongiorno. Avremmo romani meno trucidi e milanesi appena appena più ironici, forse (e si sa che Roma e Milano, insieme, sono una città bellissima).

 

L’Italia insomma è diventata una Repubblica fondata sullo snack dolce/salato. E naturalmente questi dieci anni hanno incrociato anche la temperie culinaria: il Pendolino ha lasciato spazio alla ristorazione che viaggia, il macellaio Cremonini e le piadine della Chef Express hanno ceduto posto allo snack di benvenuto a menu e opzioni sempre più complesse: dai “orzo-ginseng”, tramezzino senza glutine, birra artigianale. E poi ancora Carlo Cracco alle Freccebistrò ai paninetti by Eataly su Italo (“Mosaico di verdure alla mediterranea, crema di Parmigiano Reggiano D.O.P., Amarettini morbidi”, “sfogliatelle di pane e grissini” e acqua Lurisia). Poi, arrivati a Termini, scavalcando homeless, si può arrivare fino alle delizie di Mercato Centrale che sotto la cappa mazzoniana friggono carciofi e trapizzini a chilometri zero. (In futuro, quando il Roma-Milano si farà in due ore, ci sarà forse l’opzione di prendersi su la tua pasta madre a Roma, farla lievitare in viaggio, e panificarla comodamente a Milano).

 

Intanto altre temperie: arrivava Italo, la prima startup con exit degna di questo nome. Falliva la carta stampata e dai brividi per i giornali offerti ai primi tempi delle Frecce si passava alla repulsione per quei manufatti radioattivi che nessuno voleva più manco “a gratis”. E si generavano incongruenze e confronti: stazioni diventati aeroporti, con business lounge e ingressi e punti fedeltà e gate di prima e seconda classe (ma il casino al binario non diminuisce). Moltiplicazione delle classi, non più prima e seconda (“la terza l’hanno abolita”, fantozzianamente, invece ritornata sotto le fattezze di “smart” o “standard”, che però non è più classe ma “ambiente”: e gli ambienti giusti si chiamano Club ed Executive). Lì, pur in assenza di vagoni ristoranti, ecco l’importanza del networking come poi nel progenitore del Freccia, il Settebello che lanciava lo slow food sul Milano-Roma con interessanti possibilità di incontri (consigliato anche dalla escort Soraya in “Parigi o cara” di Vittorio Caprioli). Ognuno trova il suo interesse e il suo piacere col Freccia. Anche le stazioni cambiano.

 

Anche in maniera imprevedibile. Centrale è chiaramente molto più pericolosa di Termini (oltre che complicata: non si è mai capito quale sia il percorso dal treno alla metropolitana senza incappare in decine di tapis roulant); i questuanti che affollano il piazzale antistante più numerosi e aggressivi dei loro omologhi romani. Poi, il boom economico generava anche indotti e altre utenze: il Salone del Mobile non attira solo moltitudini di vetrinisti e decoratori dalla Mitteleuropa creativa ma anche altri fruitori: ad aprile, plotoni di borseggiatrici rom a gruppi di trenta si erano date appuntamento da tutta Italia, la Polfer ne arrestava diciassette, tutte insieme, tutte incinte, specie di amazzoni della Design Week (ma altrettanto interessanti sono altri gruppi omogenei, gli stilisti e i pr romani che salgono a Milano per la fashion week in Club Executive).

 

Tutti sulle Frecce, insomma. Ma uscendo dall’Alta Velocità, che dramma. Chi è fuori è fuori: basta andare a Siena o in qualche altra città non toccata dalle Frecce. Treviglio, un tempo scalo simbolico sulla Milano-Venezia, ora scavallata, e polverizzata dalla cartina geografica. Il treno semplice, non Frecciarossa, è proletarizzato, e così i suoi passeggeri (con razzismi anche pre-gialloverdi. In Lombardia, gli interregionali serali si chiamano talvolta “nigger train”. “Ma sei pazza, a prendere il “nigger delle dieci e mezza?”).

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