Il movimento contro i viaggi aerei (inquinano!) ha un gran problema culturale

Eugenio Cau

Volare è dannoso per il pianeta ma la soluzione migliore è “stare a casa”? Le campagne #flyingless e la crisi del cosmopolitismo

Milano. Viaggiare in aeroplano uccide il pianeta. Scoprire il mondo è un crimine contro la natura. Il turismo è una calamità. Greta Thunberg, giovane attivista contro il riscaldamento globale, ha smesso di prendere l’aereo e viaggia soltanto in treno. In Svezia, uno dei paesi più attenti ai cambiamenti climatici, il numero di persone che prende l’aeroplano è calato del 5 per cento nel 2019, e tutti dicono che la ragione è che i voli inquinano troppo. (In realtà a cercare un po’ più a fondo si scopre che in Svezia nell’aprile del 2018 è stata introdotta una nuova tassa che rende i voli più costosi, e che il numero di passeggeri sugli aerei era già in calo l’anno scorso, forse più per questioni finanziarie che per coscienza ambientale). Ci sono già gli hashtag, che vanno da #flyingless a #stopflying a #stayontheground, e c’è anche il neologismo, in svedese: “flygskam”, che significa “vergogna di volare, di prendere un aereoplano”.

 

Il ragionamento, in breve, è questo: i voli aerei sono un modo di viaggiare dannoso per il pianeta. Sul New York Times di un paio di giorni fa, Andy Newman ha citato un saggio pubblicato su Science in cui gli scienziati hanno fatto i conti: ciascun passeggero che fa un viaggio di 4.000 chilometri in aereo (grossomodo la distanza tra New York e Los Angeles) è responsabile per emissioni che provocano lo scioglimento di tre metri quadrati di ghiacciai artici. Se fai il viaggio di ritorno, sono altri tre metri quadri di ghiacciai sciolti. Andare in nave è ancora peggio, le emissioni per chilometro sono tre-quattro volte superiori a quelle degli aeroplani (notarella: è stato rilevato che l’aria dentro alle navi da crociera è inquinatissima, alla faccia del “vado in mare e respiro aria pura”).

 

E dunque, specie in paesi in cui le reti ferroviarie sono quasi inesistenti come gli Stati Uniti, la soluzione migliore è “stare a casa”: così è titolato l’articolo del New York Times, che pure ha un approccio dubitativo. Questo senza contare che il turismo di massa sta rovinando il patrimonio naturalistico e culturale del pianeta, come scrive sempre in questi giorni Annie Lowrey sull’Atlantic: l’avete vista la foto degli scalatori tutti in fila per raggiungere la vetta dell’Everest?

  

Insomma, tra le classi medie ed erudite dei paesi più sviluppati si fa strada una nuova forma di ambientalismo che vede nei viaggi a lunga distanza (e forse nei viaggi tout court, tranne quelli che possono essere fatti in treno) un pericolo da evitare. C’è un ossimoro in questa dottrina, che non riguarda la scienza ambientale ma la cultura. Fino a pochissimi anni fa la classe media ed erudita godeva anche di un altro appellativo: cosmopolita. I rappresentanti migliori della nostra società, si diceva, erano quelli che viaggiavano il mondo, imparavano ad apprezzarne la diversità e poi tornavano decisi a difenderlo. L’Unione europea ha perfino istituito un programma specifico per spingere i suoi giovani a viaggiare (e cos’è in fondo l’Ue se non un gigantesco progetto di cosmopolitismo?). E’ da almeno un paio di secoli che essere cosmopoliti è un tratto distintivo delle classi erudite, specie a sinistra, ed è da almeno un paio di secoli che quelle stesse classi erudite si formano grazie al cosmopolitismo, che per molto tempo è stato considerato un valore per se.

  

Ora quel valore è minato dalla minaccia del riscaldamento climatico e dall’idea che se scoprire il mondo porta alla sua distruzione, allora tanto vale non scoprirlo. Ma così facendo le classi medie erudite si privano delle caratteristiche che le hanno rese tali, e che forse sono collegate le une alle altre. I valori di apertura e solidarietà ed empatia che sono tipici proprio delle persone più sensibili all’ambiente sono ancora possibili quando si decide di “stare a casa”? Nella società occidentale, in cui la grande battaglia ideologica non è più tra destra e sinistra ma tra apertura e chiusura, rifiutare il cosmopolitismo non è forse un valore della chiusura?

 

Questo non significa che il problema non esista e che non si debba prestare attenzione alle emissioni provocate dalla diffusione eccezionale dei viaggi in aereo. Ma dobbiamo anche essere consapevoli di cosa rischiamo di perdere mentre stiamo a casa in attesa che gli aeroplani comincino ad andare a idrogeno.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.