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Il lamento dell'élite

Michele Masneri

Dall’Argentina all’Argentario. Lupo Rattazzi, figlio di Susanna e nipote di Gianni Agnelli. Il corpo a corpo coi populisti, da Perón ai Cinque stelle

Se ci fosse un tribunale delle élite Lupo Rattazzi prenderebbe l’ergastolo. Discendente di un primo ministro, nipote di Gianni Agnelli, laureato a Harvard. Ricco di suo, ha pure fatto i soldi in proprio. Una commissione costi-benefici dovrebbe abolirlo. Sessantacinque anni, gessato grigio, camicia azzurra, due orologi, uno del tipo sportivo-gommoso e l’altro quadrato Apple, riceve in un favoloso palazzo ai fori imperiali a Roma – ma lavora a Milano, dove dirige la Neos, compagnia aerea privata, dopo aver fondato la Air Europe che ha poi venduto molto bene a Swiss Air.

 

Cortese, sornione, senza l’aria da sopravvissuto di altri membri del casato. La grande passione per gli aerei: “Pilota a cinque anni”

La divisione italiana di Air Europe rivenduta a Swiss Air “per una cifra imbarazzante”. In Urss con Garboli e il cugino Edoardo

Una fidanzata californiana, due figli, è uno degli Agnelli “minori”, di quelli rimasti sottotraccia durante l’epoca d’oro agnelliana e poi dopo. Intanto è difficile fare questo pezzo perché non si sa quante informazioni dare per scontate. I più piccini oggi non sanno più manco chi era l’Avvocato. Forse sanno Lapo. Ma non Lupo. Certo vi impegnate per ingenerare confusione nei fans. “Ma bisogna fare un distinguo, Lapo ha una sua dignità letteraria, Lupo è perché a mia madre piacevano i nomi strani”, dice Lupo, cortese, sornione, senza quell’aria da sopravvissuto di altri membri del casato; e con la parlata tipica di certi altri membri, uno strano modo di pronunciare le parole, ovviamente senza un’ombra d’accento, gonfiando un po’ le guance, con un’esitazione a sputare fuori le ultime sillabe, tra ritegno e ironia.

 

Sua madre, sempre per i più piccini, era Susanna Agnelli detta Suni, leggendario alter ego del fratello Avvocato, stessi capelli e perfidia. Figura abbastanza unica di ereditiera-public servant-socialite-femme savante. Ministro degli Esteri e tenutaria di una posta del cuore perfida su Oggi. E nominatrice fantasiosa. Tra i figli ci sono appunto un Lupo, una Delfina, una Samaritana. Tra Bibbia e animalier. “Era un personaggio particolare, mia madre”, ride sommessamente Lupo. La mamma-personaggio, scomparsa dieci anni fa, visse e amò pericolosamente, tra Torino, l’Argentina, New York e Roma, documentando la sua vita in alcuni libri che fecero sognare l’Italia, tra Harmony e memorialistica inglese molto dry. Finita la guerra, si trasferì in Argentina in una mega tenuta, Los Cardos. Lupo vi ha passato l’infanzia e ha scoperto la grande passione della vita sua, gli aerei. “Ho cominciato a pilotare quando avevo cinque anni. Le strade erano un disastro allora in Argentina, e avevamo un piccolo Cessna per fare la spola tra Buenos Aires e la campagna. Un giorno il pilota mi dice: dammi il tuo giornalino che io ti faccio pilotare. Per qualche minuto andammo giù di diversi piedi, ma nacque un amore che non è mai finito”.

 

Tra i tanti amori di Suni invece c’era la politica, o almeno l’amministrazione, in stile un po’ feudale-british (gli Agnelli spesso compivano delle supplenze democratiche nel disgraziato paese, a tutti i livelli, per rattoppare la classe dirigente talvolta impresentabile). Fece il sottosegretario e il ministro degli Esteri, ma fu soprattutto “sindaco per tanti anni di Monte Argentario, perché le sembrava un posto unico che andasse preservato. Anche se dato il suo carattere lo zio diceva che lei più altro faceva lo sceriffo”. (Lo zio naturalmente era l’Avvocato). A un certo punto “Suni” portò Guido Carli, suo fidanzato, ex governatore della Banca d’Italia e presidente di Confindustria, a fare l’assessore al bilancio nel comune di Monte Argentario. “Avrebbero dovuto ringraziarlo tutti i giorni, invece un giorno un consigliere comunale di opposizione si alzò e gli disse: ‘stia zitto, che lei di economia non capisce niente! Fu un dispetto tremendo di mia madre, chiedere a Carli, un economista di fama internazionale, di fare l’assessore in un piccolo comune”. Beh, è un po’ come oggi, dove qualunque disgraziato zittisce esimi cattedratici in tv. “E’ vero”, dice Rattazzi. Alla fine sia Suni che Carli desistettero; e a pensarci oggi, l’Argentario sovranista contro gli Agnelli cosmopoliti sembra molto attuale. Certo oggi vi avrebbero fatti a pezzi. Un turbomondialista che si candida nel comune rosso. “Mah, non so. Guardi che il fenomeno è molto ambiguo. Perché ti fanno a pezzi ma poi ti adulano. Noi siamo molto condizionati da quello che la gente dice sui social. Ma la gente sui social dice qualunque cosa. Poi di persona è un’altra cosa”. (Rattazzi su Twitter ogni tanto tenta di riportare l’ordine tra gli odiatori. A uno: “Ma come parli? Ma dove credi di essere, in un’osteria di Gallarate?”).

 

Rattazzi, dopo una laurea a Columbia in economia e un master in economia pubblica ad Harvard (elite!) lavorò proprio con Carli (“ultimamente sono rimasto stupito: parlavo con una persona anche molto preparata, non aveva idea di chi fosse”). E con Paolo Savona al centro studi di Confindustria (“mi dette una grande opportunità, nel ‘77 mi offrì il mio primo lavoro. Di questo gli sono riconoscente. Però non capirò mai come può stare con questi qua”). “Questi qua” sono l’attuale maggioranza di governo, e in particolare i Cinque stelle, che Rattazzi attacca con tutti i mezzi possibili, da Twitter (pochi giorni fa ha risposto a Alberto Maria Rinaldi, nuovo guru pentastellato: “Sei l’Alberto Sordi dell’economia!”, e non è male come definizione), al comprare pagine di quotidiani. “Lupo Rattazzi, imprenditore”, c’era scritto, sotto una pagina a pagamento di Repubblica del 31 maggio in cui chiedeva conto a Salvini e Di Maio (e a Savona) delle conseguenze di un’uscita dell’Italia dall’euro. “Voi queste cose le avete raccontate al vostro elettorato, soprattutto quello che vive di salari e pensioni?” era la domanda, riferita a svalutazione e conseguenze possibili di un’Italexit. Rattazzi adesso è più tranquillo (“credo si siano resi conto che l’uscita dalla moneta unica non è fattibile, che un conto è fare le barricate e un altro è stare al governo”. Anche se tra gli investitori rimane “la disperazione più totale. I gestori di fondi, ma anche i commercialisti, tutti ti riferiscono di clienti appanicati”). “E comunque l’Argentina è stata molto istruttiva, sa? Quando siamo arrivati noi era un paese fiorente, poi Perón in poco meno di vent’anni ha distrutto l’economia completamente. E’ un ottimo caso di scuola per capire cosa può fare il populismo a un paese. C’era già tutto: anche il reddito di cittadinanza”.

 

Rattazzi ovviamente un po’ di politica ce l’ha nel blasone (a parte l’antenato Urbano, presidente del consiglio dell’Italia umbertina, in casa di mamma allignava La Malfa, che istruì la dimensione politica dell’agnellitudine. “Inviso alla sinistra ma anche alla democrazia cristiana. Era una posizione minoritaria, europeista e atlantista”. Insomma sempre élite, sempre minoranza. Un karma. Lui ha votato “sempre repubblicano, poi Berlusconi nel ‘94, e ultimamente Pd”. Ha appoggiato il manifesto europeista di Calenda, “certo”, e adesso chiede incuriosito, “li conosce lei questi giovani del movimento paneuropeo Volt? Mi sembrano molto interessanti”. Certo che rimpianto non avere Agnelli oggi ad affibbiare soprannomi: chissà come avrebbe soprannominato Toninelli o Di Maio. “Lasciamo perdere”. Con lo zio, Rattazzi ha sempre avuto un rapporto preferenziale rispetto alle decine di altri nipoti di un nonno non proprio calorosissimo. “Forse perché me ne stavo in disparte, forse perché mi son sempre fatto i fatti miei”, o forse perché aveva fatto appunto i soldi, in mezzo alla esangue discendenza; “ma non sono l’unico, assolutamente, c’è anche Sebastiano Fürstenberg, lui è molto bravo, io sono solo stato fortunato”. Nello specifico la fortuna è stata di aver comprato praticamente a zero lire “la divisione italiana di Air Europe dal fallimento della capogruppo”, e poi di averla rivenduta a Swiss Air anni dopo “per una cifra imbarazzante”. Ma com’è fare gli imprenditori in proprio in una famiglia di ereditieri? Bizzarro, come fare i cantanti in una stirpe di notai? “Assolutamente no. Il successo piace sempre. Il successo ha sempre successo”, sorride Rattazzi, che ricorda però dei parenti che lo sconsigliarono vivamente di buttarsi in quell’avventura aeronautica, del resto “eravamo durante la guerra del Golfo, sembrava il peggior affare del mondo” (e sembra di vederli, i parenti blasonatissimi a dissuadere questo giovane che si vuole inventare un’azienda sua). “Lo zio, invece, entusiasta. Cioè a modo suo, sfotticchiando. Diceva: ‘ecco che arriva Lupo il plutocrate’. Poi però si offriva di consigliarmi, di aiutarmi. Sempre a modo suo: a un certo punto mentre stavo vendendo l’azienda a Swiss Air, si convinse che voleva telefonare al presidente svizzero: gli dissi che non era il caso”. Lo zio aveva uno stile di vita “da James Bond”, ha detto Rattazzi nel documentario HBO di qualche tempo fa. “Ma quella fu una definizione di una mia fidanzata inglese. Lo zio ci convocò per un weekend tipico agnelliano. Che consisteva nell’uso di tutti i suoi mezzi di terra e di mare. Che so, venivi prelevato dall’elicottero, poi portato con l’aereo privato a Saint Moritz, poi via sullo yacht”. “Alla fine del weekend la fidanzata mi chiese: ma tuo zio chi è, James Bond?”. Lo zio dava assuefazione. “Dopo quei weekend venivi rispedito nella realtà, nel mio caso la domenica sera ero scaraventato indietro sulla Milano-Torino con la mia Ritmo diesel color carta da zucchero. Venivi droppato alla tua via, e andavi in depressione”. Però non si butti giù, in fondo voi Rattazzi eravate nei diari di Andy Warhol. Ci sono tante parti su di voi. “Eh, ma quelli erano gli anni da studenti, sì. Nel 1971 siamo arrivati a New York. Io facevo Columbia, mia sorella NYU, l’altra un altro college, abitavamo in una grande casa tutti insieme”. Lei era stato pure fidanzato con la figlia di Imelda Marcos. Lo scrive Warhol, citato in “Casa Agnelli” di Marco Ferrante: “11 dicembre 1981: ho sentito dire che Imelda sta di nuovo frequentando Lupo Rattazzi”. Sorride. “Già, vero, Imelda Junior. Pensi che adesso fa la governatrice di una provincia delle Filippine, Locos Nortes. E’ strano, no? Che la figlia di un dittatore abbia una carica pubblica. Ma era una ragazza molto preparata, aveva fatto Princeton. Una volta andai a trovarla a Manila”. Avrà visto le famose scarpe. “No, quelle no. Però una volta si parlava di un’azienda, e io chiesi: ma è vostra? E lei ridendo mi disse: non hai capito: qui è tutto nostro”.

 

Paolo Savona “nel ’77 mi offrì il mio primo lavoro. Di questo gli sono riconoscente. Però non capirò mai come può stare con questi qua”

Su Twitter, con una pagina a pagamento su Repubblica, l’attacco ai Cinque stelle con tutti i mezzi possibili. La politica nel blasone

Insomma, Rattazzi, lei è stato esposto a massicce dosi di élitismo. Fin dal dna: l’antenato che si chiama come una strada; una nonna, Virginia Agnelli, corteggiata da Malaparte, che trattò la liberazione di Roma coi tedeschi. “Purtroppo non feci in tempo a conoscerla. Ma anche la bisnonna Jane di San Faustino non era male. Alle sue feste a palazzo Barberini c’era Gary Cooper. Ma forse i millennial oggi ignorano anche chi sia stato Gary Cooper”. E all’Argentario, chi c’era, chi veniva? Ci faccia sognare. Riflette. “Una volta venne Jackie Kennedy, era l’anno successivo alla morte del marito”. Com’era? “Non ho grandi ricordi, ero troppo piccolo. Poi sorride e dice quasi fra sé: “Ricordo che il lunedì successivo a scuola ci dettero un tema: cosa hai fatto nel fine settimana, e io scrissi la verità, cioè che era venuta la moglie del presidente americano a fare il bagno a casa mia: e lì giù pernacchie. Fu un’ottima lezione per capire che nella vita a volte è meglio stare zitti”. La scuola era il liceo Massimo, la Eton romana (“in classe con me c’era Mario Draghi. Mio fratello Cristiano invece era in classe con Luca Cordero di Montezemolo”).

 

E poi il Gianicolo. La casa, quel Bosco Parrasio misterico – una villa immersa in un bosco, sede nel Settecento dell’Accademia dell’Arcadia, ci si è stati una volta: è una specie di grotta arredata da Mongiardino. Sembra più una cappella di famiglia molto eccentrica che una casa. “Uhm. Forse un po’ tetra, sì. Ma era bellissima. E d’estate, quando fuori c’erano 40 gradi, si stava freschissimi. Noi bambini comunque stavamo in una casa separata”. Come separata? “Sì, stavamo con le tate a Trastevere. Perché alla fine in casa di mia madre non c’era abbastanza spazio”. Nella casa un po’ grotta arrivavano intellettuali, anche. Perché “Suni” a un certo punto ebbe come fidanzato Cesare Garboli, critico letterario. Molto chic, ricco pure lui. “E molto comunista”. “Ebbe il merito di farci conoscere delle persone che normalmente una famiglia come la nostra non avrebbe frequentato. Grazie a lui venivano Antonioni, Bassani, Jacques Lacan. Di converso però rappresentava l’aspetto nefasto tipico dell’intellettuale di sinistra italiano…”. Perché nefasto? “A parte i meriti letterari, erano veramente una classe ipocrita: intellettuali antagonisti contro un capitalismo a cui non avrebbero mai rinunciato”. Parole dure. “Io comunque ho fatto un viaggio in Russia allucinante con Garboli”. “A un certo punto lo zio si convince che vuole spedire Edoardo” (il figlio sfortunato che poi si suiciderà) “e me, visto che eravamo molto legati, in un viaggio di istruzione in Unione sovietica. Scortati da Garboli e da un suo nipote, Pietro Lanzara”. Edoardo e Lupo, adolescenti, in vacanza al mare, non sono proprio entusiasti, prendono tempo. “Eravamo all’Argentario, estate 1967, e alle quattro e mezzo di mattina suona il telefono, è il centralino di Torino. (Par di vedere ancora il terrore nei suoi occhi). “Le passo l’Avvocato Agnelli”. “Lo zio mi dice: ma davvero state facendo resistenza al viaggio in Unione sovietica? Fate la valigia e partite immediatamente, teste di cazzo!”. “Dopo poche ore eravamo su un volo diretto a Mosca: io, Edoardo, Garboli e suo nipote”. Ma Garboli svolgeva ruolo di tutore? (leggera esitazione; poi, “sì”). “Ricordo la sua crescente disperazione e delusione mano a mano che proseguivamo il viaggio. Non funzionava niente, chiedevi un caffè e non veniva nessuno, aspettammo otto ore all’aeroporto di Leningrado un aereo che non arrivò mai. La Russia comunista era un disastro. Mio zio del resto la chiamava ‘Napoli sottozero’. Però ci furono anche dei bei momenti: Garboli insistette fino allo sfinimento per andare a visitare Jasnaja Poljana, la tenuta di Tolstoj: e allora fu bello. Ho una fotografia a cui tengo molto: io e Edoardo, due tredicenni teste di cazzo che volevano solo andare in motorino. Insieme, a casa Tolstoj”.

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